Il blitz di Matteo Renzi sulle banche popolari dovrà essere ricordato come uno degli atti di maggior coraggio e di più forte intensità modernizzatrice del suo Governo. Non sorprende perciò l’opposizione a testa bassa dell’Assopopolari, che da vent’anni si oppone a qualunque progetto di reale riforma ma che può solo prendersela con se stessa per aver testardamente chiuso gli occhi di fronte alla realtà e non aver saputo presentare per tempo un credibile piano di autoriforma delle banche popolari.
La durezza della reazione dell’associazione di categoria conferma però che la battaglia sul decreto che abolisce il voto capitario nelle dieci maggiori Popolari e le obbliga a trasformarsi in spa in 18 mesi sarà senza esclusioni di colpi e lascerà sul campo morti e feriti. Del resto, lo scontro sulle Popolari va in scena da vent’anni e finora nessun governo è mai riuscito a vincere di fronte a una lobby trasversale molto agguerrita che in Parlamento ha saputo sabotare ogni tentativo di riforma contro tutte le raccomandazioni della Banca d’Italia.
Nel 1998 perfino Mario Draghi dovette rinunciare alla riforma delle Popolari. Nella prima bozza del Tuf (il Testo unico della Finanza, quello – per intenderci – che introdusse l’Opa nel nostro ordinamento) l’allora direttore generale del Tesoro provò, con il sostegno di un ministro del calibro di Carlo Azeglio Ciampi, a cancellare il voto capitario delle Popolari ma suscitò una levata di scudi che lo indusse a ritirare la contestatissima norma. C’è da sperare che stavolta vada meglio e l’entusiastica risposta dei mercati finanziari fa capire che oggi il vento tira in altra direzione e incoraggia il governo Renzi ad andare fino in fondo nella sua battaglia riformatrice.
LA VERA POSTA IN GIOCO
Ma qual è la vera posta in gioco della riforma delle Popolari e che cosa si nasconde dietro il voto capitario? La risposta è molto semplice: si tratta di decidere se nella maggiori banche popolari, che sono per lo più quotate in banca e che sono veri e propri colossi del credito, debbano continuare a spadroneggiare quelle che Guido Carli chiamava le arciconfraternite del potere, cioè le potentissime lobbies sindacali e politiche locali che in banca hanno sempre fatto il bello e il cattivo tempo, oppure debba finalmente affermarsi un principio fondamentale di democrazia e trasparenza economica in base al quale le azioni non si pesano ma si contano.
Le obiezioni di merito e di metodo alla riforma sollevate dall’Assopopolari e assecondate da sindacati e politici che spesso non sanno di che cosa parlano o si preoccupano solo di difendere lo status quo oppure sono strumentalmente contrari a qualunque mossa del governo Renzi (come rivela l’emblematica reazione contraria della Camusso e di Fassina) sono pistole scariche, ma non vanno sottovalutate, perché possono annebbiare le idee e intralciare il cammino del cambiamento. Vediamole una per una.
LE OBIEZIONI DI METODO
L’Assopopolari e i supporter lamentano il ricorso al decreto per una materia che non avrebbe, a sentir loro, i presupposti della “necessità e urgenza”. Ma nel ‘92 la trasformazione in una notte dell’Iri, dell’Eni, dell’Ina e dell’Enel da enti di gestione in spa non avvenne col decreto n. 333? E a farlo non fu il primo Governo di quel finissimo costituzionalista di Giuliano Amato?
Con buona pace dell’esercito dei legulei, non ci vuole molto per comprendere che la riforma delle Popolari è materia altamente infiammabile, su cui non per caso indaga anche la Consob, e che i tempi nel lancio del provvedimento devono essere necessariamente veloci per non alimentare scorribande di Borsa sulle ali dell’insider trading e dell’aggiotaggio.
Ma c’è anche una ragione politica che obbligava e obbliga a fare presto: l’importanza di dare ai mercati e alla comunità internazionale il segnale che anche di fronte ai totem e ai tabù la musica in Italia è finalmente cambiata, come è già avvenuto per il mercato del lavoro e come dovrà avvenire per la pubblica amministrazione, per la riforma della giustizia e per la lotta alla criminalità e per tanti altri aspetti di un Paese che va profondamente riformato.
Al di là degli effetti che la riforma potrà avere sugli assetti bancari e sui casi più a rischio (da Mps a Carige), l’urgenza del decreto sta tutta qui e non ci sarà azzeccagarbugli che potrà cancellarla.
LE CINQUE INSOSTENIBILI OBIEZIONI DI MERITO
Ma è sulle critiche di merito alla riforma delle Popolari che conviene concentrare la riflessione. Le principali obiezioni all’abolizione del voto capitario (una testa e un voto a prescindere dal numero delle azioni possedute), che è il vero cuore della riforma, sono sostanzialmente cinque e sostengono che, così facendo, il decreto uccide la democrazia economica, taglia i legami con il territorio, mette a rischio il credito alle imprese e alle famiglie, presta il fianco alla colonizzazione delle banche popolari, affossa un modello virtuoso di banca.
VOTO CAPITARIO E DEMOCRAZIA ECONOMICA
Politica ed economia non sono la stessa cosa. Ciò che è democratico in politica (il suffragio universale che mette tutti sullo stesso piano e permette a tutti di votare a parità di diritti) non necessariamente lo è in economia e in finanza. Il voto capitario, che attualmente vige nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo, ha senso – e infatti la riforma distingue tra grandi e piccole banche – nelle piccole realtà dove ci si conosce tutti.
La scelta del Governo di mantenere il voto capitario nelle piccole banche popolari e nelle Bcc è sacrosanta, ma nelle grandi Popolari, quelle che hanno un attivo di oltre 8 miliardi di euro e che nella maggior parte dei casi hanno liberamente deciso di quotarsi in Borsa, il voto capitario è una contraddizione in termini che grida vendetta. Perché mai le regole del gioco che valgono per tutte le altre società quotate in Borsa, che infatti sono spa, non dovrebbero valere per le grandi banche Popolari, a tutto svantaggio degli investitori?
Nelle grandi società le azioni si contano e non si pesano e la democrazia è quella che si basa sul numero delle azioni possedute e sull’entità del capitale di rischio dei singoli investitori. Perché allora tanta ostilità all’abolizione del voto capitario? La ragione è sotto gli occhi di tutto ed è una ragione di puro potere. Basta vedere come funzionano le assemblee societarie delle grandi Popolari con le vagonate di truppe cammellate organizzate dai professionisti del potere – che di volta in volta possono essere i sindacati interni, i boss locali o gruppi autoreferenziali – che il voto capitario incoraggia suggerendo una raccolta del consenso che prescinde totalmente dall’entità degli investimenti azionari compiuti nella banca in questione.
Col voto capitario vincono i ras delle Popolari (da non confondere con i top manager che in molti casi sono eccellenti ma che sono a loro volta vittime del sistema di potere attuale) ma non certo la democrazia economica. Sono loro che poi decidono – spesso senza alcun rispetto per il merito – le carriere interne alla banca, la concessione del credito, il legame con il territorio. Ma qui è ora di intendersi.
MODELLO BANCARIO E LEGAMI COL TERRITORIO
E’ saggio un sistema bancario che affida la concessione del credito non al merito di credito ma al consenso politico o sindacale che sorregge gli equilibri di potere ai vertici delle grandi Popolari? Spesso i difensori dello status quo sostengono che cancellando il voto capitario si affossa un sistema bancario virtuoso. Ma è davvero così? Non pare proprio. Che dire degli scandali o dei crack che negli anni hanno accompagnato la Banca Popolare di Lodi di Giampiero Fiorani, o in precedenza la Banca Popolare di Novara, o i casi di corruzione e gli arresti alla Popolare di Milano o le manovre di odore massonico attorno alla Banca Popolare dell’Etruria? La storia racconta che l’attuale modello di banca popolare, proprio perché favorisce l’autoreferenzialità e la collusione con il potere politico e sindacale, è tutt’altro che un modello virtuoso ed è tempo di riformarlo, come la Banca d’Italia suggerisce da anni.
Quanto poi ai legami con il territorio sarebbe opportuno evitare gli equivoci. Che vuol dire legame con il territorio in una zona ad alta intensità mafiosa o criminale? Non occorre essere Einstein per capire che il legame con il territorio non può essere cieco e non può essere passivo. Un vero banchiere deve saper selezionare le domande che vengono dal territorio e non raccoglierle tutte indiscriminatamente, perché c’è chi merita credito e chi no. Una banca deve sapere dire sia i sì che i no, a seconda dei casi. E non v’è chi non veda come una moderna governance, basata sul superamento del voto capitario nella grandi Popolari, incoraggi la trasparenza, l’efficienza, la redditività e la giusta selezione del credito.
I COSACCHI ALLE PORTE
Infine c’è la storiella della presunta colonizzazione a cui la riforma esporrebbe le Popolari. I cosacchi sono di nuovo alle porte del sistema bancario?. E’ un ritornello che abbiamo già sentito ai tempi in cui l’ex Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, che non per caso era stato sedotto da un banchiere a dir poco disinvolto come Fiorani, preferiva i “furbetti del quartierino” ai partner europei per le banche italiane che avevano bisogno di rafforzarsi. Poi in Bnl, che fu la cartina di tornasole di quel periodo, arrivarono i francesi di Bnp-Paribas e non si può certo dire che dipendenti, clienti e risparmiatori di quella banca abbiano motivo di lamentarsene. Anzi. Non c’è stato proprio nessun cataclisma. Anche perché sulle acquisizioni e sull’arrivo nelle banche italiane di capitali stranieri vigila sempre la Banca d’Italia, d’intesa con la Bce, e questa è una garanzia.
Al contrario, il decreto di riforma può facilitare le fusioni e le aggregazioni tra le banche popolari e tra queste e altri istituti di credito (Mps e Carige in testa) in funzione di un loro rafforzamento e di una loro maggior efficienza. Proprio la maggior agilità delle banche popolari finirà per limitare le incursioni dei partner stranieri nel nostro sistema bancario. Ma se, sotto la vigilanza della banca centrale, arrivassero nuovi capitali esteri e nuove banche straniere in un momento di difficoltà per il mondo del credito non sarebbe certo la fine del mondo ma, al contrario, un segnale di rinnovata fiducia verso l’Italia che solo degli inguaribili provinciali potrebbero negare.