Le quotazioni del petrolio ieri hanno recuperato quasi il 4%, ma lo shock dell’ultima settimana non è archiviato. In quei cinque giorni di scambi (quattro negli Usa, dove giovedì si festeggiava il Ringraziamento) Brent e West Texas, punti di riferimento rispettivamente per l’Europa e il Nordamerica, hanno perso circa il 13%. Venerdì sera il Brent ha chiuso poco sopra i 70 dollari al barile, minimo dal maggio 2009, e il West Texas a 66,15 dollari, record negativo quinquennale. Il ritorno, ieri, dei due benchmark verso 73 e 70 dollari non rassicura nessuno dei grandi “perdenti”, cioè i produttori ad alto costo e a forte dipendenza dall’export di greggio.
L’OPEC LASCIA LIBERTA’ DI MERCATO
La decisione dell’Opec, che giovedì a Vienna ha lasciato senza variazione il proprio tetto produttivo, era ampiamente prevista, tuttavia ha spalancato la porta all’incertezza, decretando la vittoria del mercato, almeno per sei mesi, ammesso che il cartello (o meglio, l’Arabia Saudita) confermi le proprie intenzioni fino al prossimo vertice. In realtà l’incertezza non è da addebitare al meeting di Vienna, ma allo shale oil, il greggio ottenuto in forti quantità negli Usa grazie alle recenti tecniche di perforazione orizzontale e di fratturazione idraulica degli scisti rocciosi. Infatti è proprio questa nuova fonte di petrolio e di gas, troppo a lungo sottovalutata, che ha fatto scattare la guerra dei prezzi.
IL BALLETTO DEI COMMENTI
Il meeting dell’Opec ha invece innescato la corsa alle interpretazioni: si aprono i rubinetti per far calare ancora le quotazioni e costringere i produttori di shale oil a chiudere le attività troppo costose? oppure c’è qualche motivazione gradita a Washington e quindi sponsorizzata indirettamente dall’Amministrazione Obama, che sopporterebbe l’indubbio disagio delle sue società produttrici di greggio pur di vedere alle corde Iran e Russia, due paesi soggetti a sanzioni da parte degli Usa e, non a caso, fortemente dipendenti dalle entrate petrolifere?
LA LINEA SAUDITA
Forse una risposta univoca non c’è. Si può comunque sottolineare che di fronte al ministro saudita Ali al-Naimi non esistevano brillanti alternative a quella che era stata negli anni ottanta la strategia del suo predecessore Zaki Yamani: produrre di più, per mantenere e, se possibile, espandere le proprie quote di mercato. La decisione del cartello, anche se emersa da colloqui che hanno coinvolto i 12 paesi dell’Organizzazione, è la decisione di Naimi.La sua forza non è solo quella di rappresentare da solo circa un terzo di tutta la capacità produttiva dell’Opec. Essa nasce soprattutto dal fatto che nessuno dei “falchi”, come Iran, Venezuela o Algeria, aveva da mettere sul tavolo a Vienna una partecipazione ai tagli produttivi con cui si poteva sperare di arginare il ribasso dei prezzi. Il prezzo della manovra di sostegno al mercato sarebbe stata pagata tutta e solo da Riad, che avrebbe anche subìto la beffa di perdere quote di mercato a di stendere un tappeto verde (di dollari) davanti ai produttori di greggio da scisti.
LE NAZIONI IN DIFFICOLTA’
Più dei motivi della decisione Opec, vale la pena di analizzare le ricadute e i possibili scenari futuri. Infatti il collasso accusato dai prezzi fino a venerdì è il peggiore mai visto dalla crisi finanziaria del 2008 e potrebbe esercitare un impatto simile a quello che nella seconda metà degli anni novanta spinse il Messico verso a bancarotta e favorì il default che accelerò lo scioglimento dell’Unione Sovietica. A dirlo è Daniel Yergin, che nel ’92 vinse il Pulitzer per il suo saggio “The Prize: the Epic Quest for Oil, Money and Power”. Secondo Yergin, occorrerà aspettare un paio di settimane per capire dove il mercato condurrà i prezzi e dove si accumuleranno i disagi e i vantaggi della nuova situazione.Ma fin d’ora si può notare che almeno quattro grandi capitali sono in ansia.
La prima è Mosca, per la quale il greggio rappresenta il 68% delle esportazioni e il 50% del bilancio federale. La Russia ha già visto un forte calo delle riserve valutarie e un altrettanto pesante indebolimento del rublo. Al bilancio statale servirebbe un greggio a 101 dollari al barile, anche se il presidente Vladimir Putin e Igor Sechin, numero uno della grande petrolifera Rosneft, sono concordi nel dire che non avranno bisogno di tagliare la produzione nemmeno se i prezzi scenderanno sotto i 60 dollari, scenario che in ogni caso non ritengono attendibile, perché, dice Putin, come sempre il Generale Inverno sta arrivando in soccorso di Mosca, obbligando i consumatori a comprare di più.
Un’altra capitale in difficoltà è Teheran, che estrae greggio al ritmo più basso degli ultimi vent’anni, in seguito alle sanzioni imposte da Usa e Ue per scoraggiare le velleità nucleari dell’Iran. Al paese servirebbe un barile a 136 dollari, anche per frenare la lunga scivolata del suo rial, e i ribassi delle quotazioni del Brent possono solo trasformare una crisi prolungata in un terremoto disastroso.
Anche Abuja vede il naira, la valuta nigeriana, in china discendente. Il greggio rappresenta il 90% dell’export e il 75% delle entrate statali e porterebbe in pareggio il bilancio della Nigeria solo se avesse quotazioni intorno a 120 dollari. La stessa cifra servirebbe anche a Caracas, dove il presidente Maduro dovrà cancellare molte misure del suo predecessore Chavez. Dal petrolio viene il 95% dell’export e il 25% del prodotto interno lordo. La situazione del Venezuela è compromessa e porta verso nuove svalutazioni, verso un ulteriore rincaro dell’energia, verso un secco taglio ai sussidi per i cittadini.Anche Iraq, Algeria e Angola soffrono per la situazione, avendo una forte dipendenza dalle esportazioni di combustibili. Tra i produttori può resistere meglio il Messico, che ha fatto tesoro della crisi degli anni novanta. L’export di greggio allora rappresentava fino al 38% dell’export del paese, mentre lo scorso anno era solo il 13%. Però le entrate dello stato contano per il 32% dal settore e quindi i problemi non mancano.
LE RICADUTE SUI PRODUTTORI OCCIDENTALI
Il panorama non è perfetto nemmeno per alcuni produttori dei paesi avanzati, come Canada e Norvegia. Il primo ha una consistente produzione da sabbie bituminose, una fonte che comporta costi abbastanza elevati, mentre la norvegese Statoil ha alcuni pozzi con un break-even point alto, forse tale da imporre qualche taglio produttivo.
Ora però i conti dovranno farli soprattutto i produttori americani. Nelle ultime settimane, grazie allo shale oil, gli Usa hanno prodotto più di 9 milioni di barili al giorno e puntano ad arrivare nel 2015 a 9,4 mbg, il massimo dal 1972. Le cifre che circolano, con fonti autorevoli come l’Agenzia Internazionale dell’Energia e il Dipartimento statunitense dell’Energia, non sono preoccupanti: le migliori formazioni di scisti, come Bakken, fanno utili anche se il greggio cade a 42 dollari al barile, inoltre solo il 4% della produzione da questa fonte ha necessità di prezzi a 80 dollari per fare utili.
Però le aziende attive nel settore hanno dovuto investire molto e hanno contratto forti debiti. E le majors come Exxon Mobil e Chevron (ma anche big europei come Shell e Bp) hanno situazioni altrettanto critiche, perché ingenti cifre sono state investite in nuovi pozzi e diversi dei nuovi progetti sono bloccati per le sanzioni imposte dagli Usa contro la Russia per punire i suoi interventi in Ucraina. Non è un caso se a New York la Exxon ha perso venerdì il 4,2%, atterrando a 90,54 $, per poi recuperare il 2% ieri e risalire a 92,35 dollari.
IL SOLLIEVO DEI CONSUMATORI
In sostanza i veri vincitori sono i grandi importatori. La Cina, in primo luogo, che sta già accelerando la costituzione di riserve strategiche e che ha una crescente forza contrattuale con i fornitori. Felici, infine, anche gli europei. Come scriveva Morya Longo domenica sul Sole 24 Ore, se l’Unione Europea importa meno inflazione (quella importata è inflazione “cattiva”, quella desiderata per sconfiggere la deflazione nasce invece dalla crescita dei consumi) può pensare di adottare una politica più espansiva. Intanto le imprese possono accantonare per il momento i timori di un caro-energia, i cittadini anche, mentre gli automobilisti possono fare il pieno a prezzi più contenuti.
Per la cronaca, secondo i calcoli di Nomisma Energia, ieri il prezzo ottimale della benzina – calcolato considerando la media del margine lordo negli ultimi 24 mesi – avrebbe dovuto essere nelle pompe self service a 1,660 euro per litro, mentre il rilevamento mostra una valore medio di 1,692 euro, composto per il 61% da tasse (accise più Iva 22%). Per il gasolio il prezzo ottimale sarebbe stato di 1,576 euro, ma alla pompa la media reale è arrivata a 1,604 euro (in questo caso sul prezzo le tasse incidono per il 57%).