L’11 novembre i prezzi petroliferi hanno segnato i minimi da quattro anni a questa parte, con il barile di Brent quotato sotto gli 82 dollari. Le previsioni di Leonardo Maugeri (ex top manager Eni, tra i massimi esperi internazionali di idrocarburi), intervistato da Barbara Corrao per First on line il 5 novembre scorso, trovano quindi una ulteriore conferma: “Troppa offerta, nel breve petrolio sempre più giù”.
La debolezza della domanda globale e le divisioni in ambito Opec che non fanno prevedere una riduzione dell’offerta nel summit di Vienna del 27 novembre prossimo nonché il rafforzamento del dollaro a seguito della vittoria elettorale dei repubblicani hanno portato il Brent ai minimi dall’ottobre 2010. Insieme a un rallentamento nella ricerca di fonti alternative e nel perseguimento dell’efficienza energetica, indispensabili per la lotta ai cambiamenti climatici, il crollo del prezzo del petrolio è destinato a produrre notevoli conseguenze sugli equilibri geopolitici mondiali. La più eclatante potrebbe essere un pesante indebolimento della Russia di Putin.
Il crollo del prezzo del barile, unito agli effetti delle sanzioni di Usa e Ue a seguito della vicenda Ucraina, finirà per chiudere “L’orso in gabbia” come titola una approfondita analisi di Stefano Vergine sull’ultimo numero dell’Espresso.La Russia, infatti, ricava circa metà delle sue entrate fiscali dalla vendita di idrocarburi (petrolio e gas). E con un Brent destinato a restare molto sotto gli 80 dollari almeno fino al 2016, come prevedono gli analisti di Goldman Sachs, Mosca avrà difficoltà a trovare le risorse necessarie per sostenere il welfare, potenziare il suo sistema militare, affrontare gli enormi investimenti necessari per sviluppare le immense risorse energetiche di cui pure dispone.
Tutto vero. Ma nel clima da nuova guerra fredda che stiamo vivendo si corre il rischio di sottovalutare le capacità dell’Orso russo di resistere e di reagire all’accerchiamento economico e militare. Non dobbiamo dimenticare l’enorme popolarità raggiunta da Putin grazie alla “riconquista” della Crimea e al sostegno ai russofoni del Donbass. Il ritrovato orgoglio nazionale che il tentativo di isolare la Russia dal mondo occidentale non fa che alimentare potrebbe fornire al popolo russo l’energia necessaria a sopportare le “inique sanzioni” più a lungo di quanto si pensi a Washington e a Bruxelles.
Inoltre, in un mercato globalizzato, l’indebolimento economico della Russia non può non avere effetti anche sul resto del mondo, Europa innanzitutto visto che è di gran lunga il principale partner commerciale di Mosca sia per le importazioni (gas petrolio e carbone) sia per esportazioni (macchinari, mezzi di trasporto prodotti chimici manifattura e agroalimentare). Per il made in Italy, stando a stime molto prudenti, l’impatto sull’export delle sanzioni varrebbe circa 200 milioni di euro all’anno. Per Coldiretti, i danni ammonterebbero ad almeno 700 milioni di euro.
Le sanzioni, infatti, se alimentano l’inflazione in Russia, favoriscono la fuga dei capitali e rallentano lo sfruttamento dei giacimenti energetici, mettono contemporaneamente a rischio le nostre esportazioni e gli enormi investimenti già in atto da parte delle grandi compagnie occidentali. La statunitense Exxon Mobil, la francese Total, la anglo-olandese Royal Dutch Shell, l’inglese BP, la norvegese Staoil e l’italiana Eni hanno sospeso a malincuore le attività in Russia a seguito dell’avvio della terza tornata di sanzioni che colpisce in particolare la collaborazione nell’esplorazione delle potenzialità produttive dell’Artico e dello shale gas siberiano.
Non va dimenticato che le compagnie energetiche occidentali hanno nel Paese investimenti per circa 35 miliardi di dollari a cui difficilmente potranno rinunciare a lungo senza danni considerevoli ai loro bilanci e soprattutto alle loro strategie di crescita in quello che è considerato il più grande serbatoio di energia del mondo.
Le grandi compagine occidentali hanno perso l’occasione di partecipare al boom dello shale oil negli Stati Uniti, ormai appannaggio di una gran numero di piccole compagnie locali. Non vedevano quindi l’ora di rifarsi, partecipando con le russe Rosneft, Gazpromneft e Lukoil allo sviluppo, in particolare, del gigantesco giacimento di shale oil di Bazhenov nella Siberia occidentale dove sono già stati estratti decine di miliardi di barili di petrolio con la trivellazione convenzionale. “Paragonato alle altre opportunità in tutto il mondo lo shale oil russo è certamente il più promettente “ ricorda John Webb, un analista della IHS la società specializzata nella analisi delle potenzialità energetiche.
Bazhenov è una formazione geologica dalle dimensioni immaginabili: copre un’area di circa un milione di chilometri quadrati, la superficie di California a Texas insieme. Secondo la U.S. Energy Information Administration contiene più di 1,2 miliardi di barili di petrolio dei quali 75 miliardi estraibili con tecnologie convenzionali. E’ il più grande potenziale di shale oil al mondo, 10 volte la famosa formazione Bakken in North Dakota e Montana. Potrebbe produrre più petrolio di quanto fino a oggi estratto dal campo “super-giant” di Ghawar in Arabia Saudita che ha fatto del XX secolo l’età del petrolio.
Se il protrarsi delle sanzioni potrebbe lasciare le Compagnie occidentali con l’amaro in bocca è altrettanto vero che a oggi la Russia non ha le tecnologie per estrarre per conto proprio lo shale gas. Per la verità un originale, quanto brutale, sistema di fraking venne messo a punto in era sovietica. Nella stessa formazione di Bazhenov tra il 1980 e il 1985 per favorire l’estrazione di petrolio e gas non si era esitato a utilizzare piccole bombe nucleari. I Progetti Angara a Benzene ricorsero a 21 esplosioni nucleari per frantumare le dure rocce che imprigionano gli idrocarburi con risultati,a quanto pare, soddisfacenti.
Nelle selvagge terre al di là degli Urali già oggi la Russia estrae, infatti, lo stesso volume di petrolio dell’Arabia Saudita ed esporta tra gas e petrolio più del Regno del deserto, fornendo un terzo degli idrocarburi che alimentare l’economia europea. Difficilmente si potrebbero riproporre oggi metodi così spicci come il fraking nucleare. Ma le capacità creative dei geologi e ingegneri russi non vanno sottovalutate. Soprattutto se unite a quelle dei ricercatori e tecnologi cinesi. Respinta dall’Occidente, la Russia non può far altro che rivolgersi al potente vicino dell’Est, affamato di energia e ben lieto di sostituirsi all’Europa come partner strategico di Mosca (vedi su First on line il mio intervento dell’11 settembre “Russia e Cina sempre più vicine e il mar Artico le unisce”).
A quel punto forse molti governi che oggi ritengono necessario umiliare l’Orso russo con ogni mezzo dovranno prendere atto di essere di fronte a una potenza “too big to punish”. Senza per questo deludere il sogno europeo dell’Ucraina, ma semmai assumendone i relativi costi, e dimostrando al tempo stesso di comprendere le ragioni delle minoranze russofone che chiedono una larga autonomia da Kiev.
Invece di inseguire l’illusione di un colpo finale che metta in ginocchio Mosca, sarebbe dunque preferibile per l’Europa intraprendere la faticosa ricerca del compromesso. Per riportare la Russia a guardare all’Europa come un partner e non come un avversario, evitando di consegnarla a una deriva “asiatica” dagli esiti imprevedibili.