Al Consiglio europeo di fine ottobre i capi di stato dei 28 Membri UE hanno trovato un accordo sui nuovi obiettivi di politica energetica al 2030, traguardando a tale data una riduzione del 40% delle emissioni di gas climalteranti (rispetto ai livelli del 1990) e un contributo del 27% delle rinnovabili ai consumi europei di energia. In sostanza, l’orizzonte della politica energetica europea si sposta ora al 2030, senza tuttavia dimenticare i già ben noti obiettivi del “20-20-20”. Proprio dall’esperienza (con luci e ombre) di come i target UE al 2020 siano stati tradotti in interventi nazionali, il nostro Paese deve trarre le più importanti lezioni per non incappare negli stessi errori.
Le fonti rinnovabili e l’efficienza energetica rappresenteranno anche nel prossimo decennio un fondamentale obiettivo da perseguire, in primo luogo per gli evidenti benefici di natura ambientale. Le recenti esperienze italiane di supporto alle FER si sono fondate però su errori di design degli incentivi che hanno vanificato il conseguimento efficace ed efficiente degli obiettivi nazionali, in particolare a causa del raggiungimento troppo anticipato dei singoli obiettivi.
Soffermandoci ad esempio sul caso più eclatante, ossia quello del fotovoltaico. Già nel 2012 il Gestore dei Servizi Energetici (GSE) riporta oltre 16,4 GW di potenza installata, quasi il doppio del target di 8,6 GW che il Piano di Azione Nazionale (2010) fissava come obiettivo al 2020. Tale enorme anticipo ha avuto importanti conseguenze sul sistema elettrico e sul tessuto industriale nazionale, tra cui:
– l’installazione massiccia di tecnologie di “prima generazione” per la produzione fotovoltaica, senza poter così trarre pieno beneficio dalla progressiva riduzione dei costi associati alle tecniche attuali (il prezzo dei moduli di silicio si è più che dimezzato rispetto ai livelli del 2011) e delle evoluzioni tecnologiche del periodo 2012-2020;
– un enorme flusso di incentivi prelevati dalle bollette dei clienti e diretto verso l’estero, poiché l’Italia era (ed è tuttora) attrezzata solo per coprire la parte finale della filiera del fotovoltaico e non le fasi “a monte” decisamente più redditizie;
– l’incapacità tecnica del sistema di trasmissione nazionale di sfruttare appieno la nuova potenza rinnovabile, con un più frequente e oneroso ricorso ai Servizi di Dispacciamento per garantire l’equilibrio complessivo del sistema, con un aggravio degli oneri di sistema a carico del cliente (la Cassa Conguaglio per il Settore Elettrico riporta un incremento del gettito annuo dei corrispettivi per la remunerazione dei costi di dispacciamento pari al 25% tra il 2010 e il 2012, con evidenze di incremento ulteriore nel 2013);
– lo spiazzamento degli investimenti in produzione di energia elettrica tradizionale, con un parco termoelettrico nel suo complesso sovradimensionato al fabbisogno del Paese post-crisi (REF-E stima un margine di riserva del parco elettrico pari al 35% al 2013, che ancora per alcuni anni permarrà su tali livelli, a fronte della soglia di adeguatezza individuata da Terna nella misura del 23%), e la distruzione della relativa occupazione e del relativo valore anche per alcune imprese nazionali.
Inoltre, è importante ricordare che il sistema di generazione elettrica di un paese non può essere basato in modo preponderante intorno a capacità di generazione rinnovabile non programmabile, quale la fotovoltaica e l’eolica, pena l’inaffidabilità del sistema stesso. Le rinnovabili non programmabili possono svilupparsi solo in presenza di adeguata capacità stabile (per servizi di baseload) e flessibile (per servizi di bilanciamento), fornita principalmente dalle fonti tradizionali a basso impatto ambientale o da quelle fonti innovative dotate di continuità produttiva (es. WTE e biogas), da un sistema di rete di trasporto e distribuzione tecnologicamente adeguato con, infine, futuri sistemi di accumulo, che ad oggi sono ancora allo stadio di sperimentazione attraverso progetti pilota sia in Italia che all’estero.
Per il futuro del settore energetico nazionale serve quindi un diverso approccio non solo nella politica energetica ma anche in quella industriale, dedicando ad esempio attenzione alle fonti rinnovabili in modo da identificare quel mix di tecnologie e quella profondità temporale capaci di rispondere efficacemente non solo alle esigenze ambientali, ma anche alle esigenze di sostenibilità nel tempo a livello di sistema. Contestualmente, bisognerà saper promuovere lo sviluppo di filiere industriali domestiche, anche per la parte infrastrutturale, e lo sfruttamento pieno degli asset di cui il Paese già dispone.
Proprio quest’ultimo punto merita una particolare attenzione e necessita di un dibattito sul futuro della strategia energetica che sia innestato sulle necessità di politica industriale. Se guardiamo oltreconfine, gli altri paesi stanno modellando sistemi energetici che sappiano massimizzare i punti di forza di ciascuna situazione specifica, migliorando la loro indipendenza energetica e dunque la competitività tra sistemi produttivi:
– la Germania, ad esempio, ha erogato incentivi alla produzione fotovoltaica ed eolica sapendo di poterne indirizzare almeno una parte all’industria domestica, grazie al presidio delle due filiere. Va comunque segnalato che una recente valutazione degli schemi di supporto alle fonti rinnovabili, voluta dal Bundestag, ha evidenziato la limitata efficacia dell’incentivazione della produzione di energia rinnovabile alla riduzione delle emissioni di CO2 e all’innovazione tecnologica in relazione alle scelte effettuate dalla Germania stessa (EFI-EEG fördert weder Klimaschutz noch Innovationen);
– gli Stati Uniti si stanno riconvertendo per diventare esportatori di gas naturale grazie alle possibilità offerte dallo shale gas, e negli anni più duri della crisi hanno potuto beneficiare del crollo dei prezzi del gas a vantaggio della competitività dell’industria domestica e, quindi, della sua ripresa. In dieci anni il contributo dello shale gas alla produzione di metano negli USA è passato dal 2% al 40%, con un impatto sull’occupazione stimato in oltre 1,5 milioni di posti di lavoro.
Al contrario, l’Italia fino ad oggi in materia energetica ha adottato un approccio passivo, da “policy taker”, senza sviluppare in modo organico una strategia che potesse essere calata sui propri punti di forza e sugli asset a propria disposizione, errore che si è tradotto in una minore crescita economica, minore occupazione e maggiore costo di approvvigionamento delle risorse energetiche, per una complessiva minore competitività del nostro sistema industriale rispetto ai riferimenti internazionali.
Una nuova strategia deve quindi saper puntare sulle ricchezze del Paese e sulle proprie eccellenze in campo industriale in modo scevro da preconcetti. In quest’ottica pare miope l’approccio di chi vorrebbe abbandonare le attività di ricerca ed estrazione degli idrocarburi o etichettarle come “residuali”, vanificando così non solo i benefici associati alla produzione domestica (occupazione, indotto, royalties) ma anche depauperando quel know-how italiano che abbiamo invece esportato nel mondo. Tra l’altro, i rischi ambientali associati alle attività di estrazione, spesso addotti come trade-off dell’attività di esplorazione, esistono sia nel caso di perforazioni lungo le nostre coste che nelle lontane aree asiatiche da cui importiamo il nostro gas, dove non è affatto scontato che siano rispettati gli stessi elevati standard ambientali vigenti in Italia.
Similmente, anche per il ciclo dei rifiuti si impone la necessità di una riflessione argomentata e senza preconcetti da innestare alla base stessa della nuova strategia energetica. L’Italia continua a dover affrontare situazioni di emergenza, a trovare soluzioni tappabuchi di breve respiro, senza invece definire ed implementare un solido piano nazionale al fine di “chiudere il ciclo” dell’ambiente entro i propri confini. E in questa prospettiva rilevano non solo i largamente noti rifiuti urbani, ma anche e soprattutto i cosiddetti speciali che rappresentano in volume una quantità ben superiore.
Se il Paese si dotasse di quelle infrastrutture necessarie a gestire sul proprio territorio l’intero ciclo – anche attraverso la riqualificazioni di impianti di produzione elettrica ormai non più utilizzabili – non sarebbe più costretto a sopportare gli oneri economici e ambientali (trasporto) per esportare parte dei propri rifiuti all’estero e a rinunciare così allo sfruttamento di quello che è comunque un nostro asset – per quanto meno “nobile” del metano o di altri fonti naturali – con ricadute occupazionali e di crescita economica importanti, naturalmente senza alcun sacrificio per l’ambiente.
L’esperienza che il Gruppo Hera ha maturato negli anni può essere preso ad esempio per circostanziare al meglio le opportunità associate ad un progetto energetico-ambientale di questo tipo. Gli investimenti sostenuti fino ad oggi dal Gruppo per poter disporre di un parco di impianti di trattamento, recupero e smaltimento adeguato alle sfide del settore e all’avanguardia fanno sì che nei territori serviti da Hera i rifiuti urbani smaltiti in discarica costituiscano solo il 16% del totale, e in prospettiva meno del 10%, collocando Hera alla pari dei Paesi europei più virtuosi, secondo l’analisi della Commissione contenuta in “Screening of waste management performance of EU member States” del 2012. A questo risultato hanno contribuito sia gli sforzi per incrementare la diffusione della raccolta differenziata e far evolvere il modello di gestione, aumentando quindi la possibilità di selezione e recupero della materia in impianti dedicati, sia la dotazione di moderni termovalorizzatori capaci di estrarre energia dalla frazione di rifiuti non avviabile a recupero, rispettando largamente i parametri di sostenibilità ambientale vigenti (con concentrazioni effettive di emissioni pari al 13% dei limiti di legge) e gli standard di efficienza energetica definiti a livello europeo.
Le tecnologie, il know-how, le esperienze per valorizzare al meglio il patrimonio di risorse di cui dispone e disporrà l’Italia sono quindi già una realtà nel nostro paese. Manca ancora però un quadro normativo/regolamentare sistemico, e un indirizzo politico ed industriale che orientino il settore energetico – e la ricerca associata ad esso – verso lo sfruttamento delle eccellenze industriali nazionali, o meglio, di ciò di cui il Paese dispone.
Il nostro auspicio è quindi che prima di imbarcarsi verso i nuovi target europei, il Paese promuova una discussione costruttiva e pragmatica sulla migliore rotta da seguire per il loro conseguimento.