Dall’Europa è arrivato il via libera alla Legge di Stabilità. Una decisione, tuttavia, condizionata all’implementazione di un ulteriore aggiustamento del disavanzo strutturale, per un totale di circa 0,3 punti percentuali, pari a 4,5 miliardi di euro. Si è trovato, così, un compromesso tra la posizione del governo italiano, che proponeva una correzione dello 0,1 per cento, e quella della Commissione, che chiedeva il rispetto delle regole relative al pareggio di bilancio strutturale, ossia all’obbligo per i paesi membri di ridurre il proprio disavanzo, depurato dagli effetti del ciclo e dalle misure una tantum, di mezzo punto percentuale l’anno.
L’inevitabile “dibattito sui decimali” ha nuovamente sollevato la questione dell’efficacia delle suddette regole. Non pochi, infatti, considerano che la regola del pareggio di bilancio andrebbe semplificata, se non del tutto abolita. Il Professor Guarino, studioso di finanza pubblica ed ex Ministro delle Finanze, ad esempio, ha dichiarato in una recente intervista al Corriere della Sera che la “Commissione ha imposto agli Stati Membri l’obiettivo del pareggio di bilancio al posto di quello della crescita sostenibile”. E ha aggiunto che questa imposizione, sarebbe, non solo giuridicamente discutibile (“un atto illegale”, lo definisce Guarino) ma anche, non auspicabile dal punto di vista delle crescita.
In realtà, in un’unione in cui i paesi hanno deciso di condividere la stessa moneta ma non la stessa politica fiscale, non se ne può fare a meno di regole fiscali. Servono ad evitare, o almeno a contenere, situazioni di disordine delle finanze pubbliche che rischiano di contagiare anche gli altri stati membri, come dimostrato dalla recente crisi. Ma non solo. Queste regole, e in particolare quella del pareggio di bilancio strutturale che obbliga i paesi a predisporre piani di rientro credibili del debito e del disavanzo nel medio termine, rafforzano l’efficacia della politica di bilancio e dunque contribuiscono ad una crescita più sostenibile all’interno dell’area. Vediamo il perché.
Nel 1992, il Trattato di Maastricht ha introdotto le due regole cardine che ancora valgono: deficit inferiore al 3% del Pil e debito inferiore al 60%. Questi limiti avevano una logica negli anni novanta perché, con una crescita reale media del 3% e un tasso d’inflazione del 2%, un disavanzo al di sotto del 3 per cento avrebbe consentito una riduzione graduale del debito pubblico (la cui media europea si attestava intorno al 90 per cento). Oggi, con una crescita pressoché nulla e l’avanzare della deflazione, le soglie andrebbero aggiornate. Ciò detto, il problema del 3 per cento non è solo quello di non consentire una riduzione del debito in presenza di una crescita tendenziale troppo bassa.
Ma, è anche quello di produrre politiche pro-cicliche, ossia politiche che, invece di contrastare la fase di recessione, la peggiorano. Con un saldo di bilancio prossimo al 3 per cento, il rischio è che, al minimo rallentamento dell’economia, la soglia venga superata per effetto degli stabilizzatori automatici di bilancio: meno crescita implica, infatti, più disoccupazione, meno entrate fiscali, maggiori spese per finanziare gli ammortizzatori sociali e quindi maggiore disavanzo. Riportarlo – in queste condizioni – entro il limite di Maastricht significa fare un aggiustamento che rischia di aggravare ancor di più la situazione, e che può innescare un circolo vizioso tra politiche fiscali restrittive e contrazione del Pil.
Per ovviare a ciò, nel 1997, con il Patto di Stabilità e Crescita è stato introdotto “l’obiettivo di pareggio strutturale” da raggiungere nel medio termine. Cosa vuol dire? In estrema sintesi, ogni stato membro deve continuare, non solo a mantenere il proprio disavanzo nominale al di sotto del 3 per cento, ma deve anche tendere verso il pareggio strutturale nel medio termine, ossia avere un saldo nominale depurato dal ciclo e dalle misure una tantum prossimo allo zero. La logica è la seguente. In caso di recessione, se il saldo di bilancio strutturale è prossimo all’equilibrio, ci sono margini sufficienti per aumentare il disavanzo nominale e usare gli stabilizzatori automatici, senza nel contempo superare la soglia del 3%. In questo modo, si evita, di implementare politiche fiscali pro-cicliche.
Tra l’altro, proprio per evitare politiche pro-cicliche, con le riforme del Patto nel 2005 e poi nel 2011, è stata regolamentata anche la velocità di convergenza verso il pareggio di bilancio. In base alla nuove norme, l’aggiustamento del disavanzo strutturale deve essere di almeno mezzo punto percentuale l’anno. L’idea sottostante è quella di “more in good times, less in bad times”. In “good times”, lo sforzo richiesto ai paesi è superiore allo 0,5% in modo da avere maggiore flessibilità nella fase negativa del ciclo. Viceversa, in “bad times”, l’aggiustamento può essere inferiore allo 0,5%. Questo spiega perché l’Italia, data la situazione economica, ha ottenuto il via libera ad una correzione di 0,3 punti percentuali.
Oltre ad attenuare la pro-ciclicità delle politiche economiche, perseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio strutturale conferisce maggiore credibilità all’azione di governo. Senza un vincolo di medio periodo che costringe a riportare i conti pubblici in ordine, una politica fiscale espansiva, effettuata in una fase negativa del ciclo, può mettere a repentaglio la sostenibilità del debito se percepita dai mercati come una manovra “senza limiti”. Ciò si applica in particolare ai paesi ad alto debito. In questo caso, l’effetto espansivo verrebbe contrastato da un aumento del rischio sovrano, che si tradurrebbe in un aumento dei tassi e in una maggiore instabilità finanziaria. Il risultato ultimo sarebbe maggiore incertezza per gli investitori e per i risparmiatori, e quindi un inevitabile acuirsi della recessione.
In conclusione, non è l’obiettivo del pareggio di bilancio strutturale che andrebbe rivisto, dal momento che contribuisce a rafforzare l’azione di governo e ad evitare politiche pro-cicliche. Semmai andrebbe rivista la metodologia di calcolo del disavanzo strutturale. Procedure più semplici, più verificabili e più comunicabili, soprattutto alla classe politica, renderebbero l’applicazione del Medium Term Objective più efficiente. Si tratta di un tema importante sul quale sarebbe utile avere un dibattito più aperto, come richiesto dal governo italiano.