Petrolio, gas, sterlina e corona. Sono enormi le implicazioni della sfida tra Scozia e Inghilterra. Gli scozzesi guadagneranno di più (1.400 sterline l’anno come sostiene il Tesoro inglese) restando nel Regno Unito o uscendone (1.000 sterline l’anno) come affermano i separatisti? Nella contesa si esercitano fior di economisti ma la Bbc ha già deciso: “È praticamente impossibile – ha sentenziato la storica emittente – conoscere quale dei due dati è quello corretto” poiché sono coinvolte previsioni di lunga durata (20 anni) suscettibili di cambiamenti in corso d’opera.
Di sicuro, il perno di ogni dibattito in vista del referendum del 18 settembre gira intorno alla rendita petrolifera sui giacimenti nel Mare del Nord. Ma apre molte altre incognite: la questione della moneta e del debito pubblico; il destino dello stato sociale a cominciare dalle pensioni. E tutto questo sarebbe ancora secondario paragonato al trauma politico della frammentazione di un Stato tra i più antichi d’Europa e i più importanti del mondo, piaccia o no.
Alex Salmond, premier scozzese e leader indipendentista, sostiene dunque che con la vittoria al referendum la Scozia (5,3 milioni di abitanti, l’8,3% del Regno Unito) sarà più ricca. Ha infatti un prezioso tesoretto su cui mettere le mani: le riserve petrolifere del Mare del Nord. E’ il famoso Brent, il greggio di riferimento su cui viene prezzato il 60% del petrolio mondiale, attualmente intorno ai 100 dollari al barile.
Tutte risorse che Londra perderebbe dopo un cambio di legislazione reso necessario dal fatto che oggi la tassazione sui profitti del North Sea avviene sul reddito delle società (corporate tax e petroleum revenue tax) e non più sulle royalties abolite nel 2002. Senza modifiche legislative, sulle quali non sono da escludere contenziosi, i guadagni delle varie major (Bp, Shell, Exxon, Eni, etc), tutte con basi in Inghilterra, continuerebbero ad affluire a Londra.
Ma, osserva Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, “se questo è l’obiettivo, allora Edimburgo avrebbe dovuto pensarci almeno dieci anni fa: il Regno Unito incassava tra tasse e diritti petroliferi 15 miliardi l’anno che oggi sono scesi a poco più di 8 miliardi. Con la separazione da Londra, 6-7 potrebbero andare alla Scozia”.
Questa è la fotografia ad oggi: la produzione di greggio è scesa dai 3 milioni negli anni ’90 a 840.000 barili/giorno. Guardando al gas, invece, la produzione si è dimezzata rispetto al 2003, a quota 57 miliardi di metri cubi. Cifre destinate a ridursi per il lento declino dei giacimenti.
“Incassare le entrate dal petrolio – osserva Marcello Colitti, economista ed ex manager Eni sin dai tempi di Enrico Mattei – sarebbe comunque un affare per gli scozzesi perché il Paese è piccolo, pochi gli abitanti. Se vincesse il no all’Unione, dagli idrocarburi potrebbe arrivare il 20% della ricchezza scozzese. Ma non conta solo l’economia, tutta la grande cultura e le università sono nel Sud del Regno Unito come anche l’industria manifatturiera. L’Inghilterra è un Paese ricco, la Scozia no”.