Nei giorni scorsi sulle edizioni de “Il Sole 24ore” e de “Il Corriere della Sera” sono apparsi gli articoli di due autori che, pur collocandosi in ambiti del tutto diversi quanto a formazione culturale, esperienze professionali e appartenenza politica, affrontano, uno con argomenti giuridici, l’altro con argomenti etici, lo stesso tema, giungendo a conclusioni segnate dalle medesime preoccupazioni. Il tema è quello dei rapporti tra economia legale e economia illegale e dei rischi, sempre più presenti, di una non esatta demarcazione tra le due zone, preludio all’ampliamento delle aree di sovrapposizione e quindi di assimilazione.
L’articolo su “Il Sole” di Guido Rossi (Quando la corruzione diventa “legalità”), richiamandosi a due sentenze della Corte Federale Americana, che avrebbero fatto definitivamente cadere ogni limitazione ai finanziamenti, diretti e indiretti, della grande impresa a favore della politica, si allinea alle preoccupazioni di importanti giuristi americani, che hanno già scritto di corruzione della legalità, quale forma di condizionamento sistematico dei grandi interessi economico/finanziari nei confronti dell’ordinamento politico/istituzionale voluto dalla Costituzione americana.
Il passaggio dal Government of People al Government of Corporations sarebbe ormai inesorabilmente avviato e non se ne potrebbe scongiurare la diffusione ad altri sistemi economici, in un progressivo contagio prodotto dal modello americano, se non rifiutando decisamente ogni ambiguità relativamente al principio stesso di legalità.
Vale a dire che la corruzione, esercitata dai grandi attori economici nei confronti dei politici e veicolata tramite il debito pubblico, non deve diventare fonte stessa di diritto, come avvenuto nel caso delle sentenze federali avanti citate, subordinando per sempre gli interessi generali dei cittadini ad altre ragioni, pena minare irrevocabilmente le fondamenta stesse dello stato di diritto alla base delle democrazie occidentali.
Va da se’ che Rossi attribuisce queste pericolose tendenze al disordinato sviluppo del capitalismo finanziario degli ultimi anni, che, ottenendo il progressivo allentamento delle regole, ha prodotto un inestricabile connubio tra economia finanziaria, non solo rappresentata dal cosiddetto shadow banking, e politica.
L’articolo/lettera sul “Corriere” (I rischi dell’economia illegale nel Pil) a firma di Letizia Moratti, già Ministro della Pubblica Istruzione, si sofferma sui prossimi cambiamenti nella misurazione del Pil, con inclusione nel calcolo dell’apporto di attività economiche illegali quali corruzione, traffico di droga, prostituzione, per un beneficio stimato in uno/due punti percentuali. Questa opzione è stata preferita a modalità in grado di considerare a questo fine aspetti sociali, ambientali, culturali della qualità della vita reale, anteponendo obiettivi immediati di mera crescita quantitativa del Pil al tema della preservazione della moralità nell’economia.
Concretamente gli apporti alla ricchezza di un Paese rappresentati da progetti educativi e di istruzione, di attenzione al patrimonio artistico e culturale, di promozione di modelli di welfare sostenibili (e tutti sanno quanto di queste attività l’Italia abbia oggi estremo bisogno), andrebbero in buona parte computati mediante il valore economico da attribuire al cosiddetto terzo settore, stimato al momento in circa 20 miliardi annui pari a oltre un punto percentuale di Pil.
Introdurre i proventi dell’economia illegale è invece una scelta che non solo va nella direzione opposta a questi modelli innovativi di valutazione, ma che potrebbe addirittura incentivare ulteriori comportamenti illegali, estendendo la questione del computo del valore economico a reati sempre più odiosi, quali, ad esempio, la tratta dei migranti o il traffico di organi umani. Anche per la Moratti, la deriva etica della finanza speculativa è la conseguenza della liberalizzazione sempre più ampia intervenuta nella legislazione finanziaria statunitense.
Il richiamo di Rossi per un attento approfondimento delle tendenze osservate nel sistema giuridico americano e la proposta della Moratti per nuove politiche di promozione di una economia positiva in quello italiano sono del tutto condivisibili.
Forse qualche spunto in più è, però, altrettanto opportuno, circa le cause più profonde dei rischi di contaminazione della economia legale da parte della economia criminale. Ce ne offre l’opportunità il recente e originale lavoro, suffragato da una ponderosa raccolta di dati e stime statistiche, dell’economista francese Thomas Piketty dal titolo Le capital au XXIe siècle (Seuil, 2013), che sta alimentando un vivace dibattito tra gli economisti.
Opera che si richiama al pensiero economico classico di Marx, il lavoro di Piketty introduce alcune importanti differenziazioni nella spiegazione della dinamica e delle interdipendenze tra capitale e reddito, mettendo in evidenza la forte tendenza alla concentrazione della ricchezza che si genera dalle rendite immobiliari, fondiarie, finanziarie. In sostanza, il capitale “ereditato” cresce più rapidamente di quello che si accumula con il risparmio prodotto dal reddito da lavoro. Soprattutto le rendite finanziarie continuano ad alimentare quello che Piketty chiama capitalismo patrimoniale, producendo crescente disuguaglianza distributiva e innestando un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita, a causa del forte aumento del rapporto tra capitale e reddito, fino a livelli mai sperimentati nei due secoli e mezzo di storia del capitalismo. E’ come se il capitale originato dalle rendite finanziarie fagocitasse un po’ alla volta il reddito da lavoro, distruggendo le fonti vere della accumulazione produttiva.
Sul piano sociale ciò conduce al progressivo impoverimento delle classi medie, nel tempo economicamente e socialmente più dinamiche, e, di conseguenza, al rallentamento dello sviluppo economico. Insomma negli ultimi decenni si sarebbe rovesciato il processo affermatosi nel “trentennio glorioso” della ricostruzione post bellica durante il quale il rapido processo di industrializzazione, insieme a politiche fiscali coerenti anche in termini di tassazione, aveva invece favorito il rafforzamento delle classi medie, il consolidamento della democrazia e una crescita economica elevata in tutti gli Stati occidentali.
Le politiche per invertire questo corso sono, per Piketty, quelle di ripristinare un sistema di accesso alle conoscenze e alla loro diffusione a costi più bassi degli attuali, al fine di promuovere una maggiore inclusione sociale e la valorizzazione del capitale umano, ma soprattutto di depotenziare, con una tassazione progressiva, il meccanismo di accumulo delle rendite patrimoniali di natura finanziaria per rallentarne la insaziabile voracità.
Anche se Piketty non affronta direttamente il tema del rapporto tra capitale patrimoniale e quadro giuridico, la sua proposta di correzione delle tendenze in atto non può non riportarci al tema della legalità, attraverso la necessità di stabilire regole coerenti con il Government of People invece che con il Government of Financial Corporations. La sua chiara proposta a favore dell’economia politica come scienza sociale, in contrapposizione agli eccessi della modellistica quantitativa degli economisti in voga negli ultimi decenni e intellettualmente organica con la crescita della rendita finanziaria, implica che l’interpretazione da dare ai fenomeni economici e i conseguenti interventi pubblici debbano essere riformulati in un quadro in cui la riduzione del grado di concentrazione della ricchezza sia vista come passaggio essenziale per ripristinare condizioni più durature e quindi più eque di sviluppo.
Il tema della legalità nella sua più ampia accezione si lega quindi direttamente alla diminuzione del grado di disuguaglianza, dato che il livello di condizionamento degli attuali detentori del potere economico non può che portare ad un contesto sempre più favorevole a coloro che già godono di posizioni di privilegio, favorendo i fenomeni corruttivi di cui sopra si è detto.
La più volte richiamata istanza delle riforme, intorno alla quale si vanno ora affannando anche organismi tecnici come le Banche centrali, ma che restano ovviamente esclusiva prerogativa dei governi democraticamente eletti, dovrebbe consistere nel porre definitivamente al centro del tavolo della politica e dell’economia il tema degli investimenti in capitale umano (dal livello di istruzione al funzionamento, con le opportune tutele e opportunità, del mercato del lavoro).
Ciò, a ben vedere, è anche vera garanzia di difesa a lungo termine della legalità dalla preoccupante offensiva della criminalità economica, anch’essa probabilmente espressione di un modello di rendita che mostra sempre più ampie aree di contiguità – basti pensare alla dimensione del riciclaggio – con quella famelica rendita finanziaria di cui parla Piketty.
Altrimenti non rimarrebbe che il vecchio cinico detto secondo il quale se non puoi sconfiggere i tuoi nemici, non resta che allearti con loro. Ma non sarebbe davvero l’augurio da fare alle democrazie occidentali.