Il fisco può giocare un ruolo centrale nella ripresa dell’economia: il nostro Paese ha bisogno di un sistema tributario semplice e neutrale, capace di assicurare stabilità e certezza; di accertamenti fiscali ispirati a criteri di trasparenza e prevedibilità, con reazioni sanzionatorie proporzionate alla reale gravità dei comportamenti dei contribuenti; di un mercato non distorto dall’evasione fiscale. Un sistema così concepito avrebbe un forte impatto positivo sulla crescita economica. Al contrario, una riforma parziale e non organica sarebbe destinata a riproporre problemi più gravi, sia in termini di gettito che di neutralità e semplicità, già entro poco tempo. Solo un radicale ripensamento del sistema fiscale può riportare il nostro Paese su un sentiero di crescita e competitività.
La delega fiscale, ora nella fase di attuazione, rappresenta un passaggio cruciale per rifondare su nuove basi di certezza e trasparenza il rapporto tra Fisco e contribuente. Due aspetti centrali della delega riguardano la definizione normativa dell’abuso del diritto, che ne deve limitare l’applicazione a fattispecie oggettive e chiaramente predeterminate rispetto al momento dell’accertamento, e la revisione del sistema delle sanzioni, amministrative e penali. L’abuso del diritto oggi è troppo spesso confuso con la frode e la simulazione, in contrasto con il principio costituzionale di legalità dell’imposizione che impone la piena prevedibilità delle conseguenze fiscali dell’operato dell’impresa: non è più accettabile che il legittimo risparmio di imposta venga confuso con l’elusione o l’evasione.
Anche le sanzioni rappresentano un punto dolente: le sanzioni amministrative, commisurate all’imposta dovuta e non alla gravità delle violazioni, oggi possono trovare applicazione anche per l’erronea imputazione temporale di componenti reddituali o di costo o per violazioni puramente formali. Il problema è ancora più rilevante per le sanzioni penali: mentre nei principali Paesi avanzati l’applicabilità delle sanzioni penali è limitata ai casi di frode, nel nostro Paese essa può divenire conseguenza automatica del superamento di soglie quantitative di contestazione – soglie tra l’altro di ammontare piuttosto contenuto. L’attuazione della delega offre l’occasione per compiere un importante passo e allineare il nostro ordinamento a quelli degli altri Paesi industrializzati.
Tuttavia, la delega non esaurisce le esigenze di riforma del nostro sistema tributario, gravemente distorto da due decenni di interventi ad hoc per rincorrere la spesa e rispondere a situazioni contingenti, che ne hanno compromesso la coerenza e moltiplicato i trattamenti speciali. Serve in primo luogo un importante riequilibrio dei carichi fiscali dall’impresa e dal lavoro verso i consumi, i patrimoni e l’imposizione dei fattori ambientali inquinanti, come da tempo ci viene richiesto dalle organizzazioni internazionali e dalla Commissione europea.
Serve una ridefinizione del reddito d’impresa, che va ricondotto a unità e determinato in base ai risultati del bilancio. Vanno eliminati gli ingiustificati trattamenti differenziati tra settori produttivi, introdotti nel corso degli anni per esigenze di gettito, con effetti distorsivi sui comportamenti d’impresa e gli investimenti. Vanno rafforzati gli incentivi a reinvestire gli utili nell’impresa e a legare le retribuzioni alla produttività. Infine, serve una drastica semplificazione del sistema, che lo renda meno distorsivo e consenta una forte riduzione dei costi di adempimento.
Più in generale, per una seria revisione del sistema fiscale è comunque indispensabile anche un cambiamento di impostazione culturale nel processo di formazione delle leggi: il rapporto tributario – soprattutto nell’ambito delle attività produttive – non può essere costantemente modificato per mere esigenze di gettito, spesso con effetti retroattivi e sulla base di negoziati politici che, operando lungo le linee di minor resistenza, deformano il sistema fiscale e si traducono in operazioni di fiscalità implicita sui consumatori di beni e servizi (si colpisce A, contribuente concentrato, perché è politicamente meno costoso, lasciando che sia A a trasferire l’incidenza dell’imposta su B, contribuente diffuso).
E’ questa una delle principali peculiarità negative del nostro ordinamento tributario, che allontana gli investitori perché distrugge l’affidabilità del sistema fiscale e distorce i comportamenti degli operatori economici, obbligandoli a temere il fisco come una fonte continua di eventi negativi imprevedibili. Soprattutto questa deriva nella produzione delle leggi fiscali e nella loro applicazione ha fatto acquisire all’Italia, nel consesso internazionale, una fama negativa di per sé ancor più dannosa; lo comprovano diversi documenti dell’Ocse e di altre autorevoli istituzioni che relegano espressamente il nostro Paese tra quelli meno affidabili.
I. Il riequilibrio dei carichi tributari
Il gettito Iva nel nostro Paese è più basso, come quota delle entrate e in proporzione al reddito, rispetto agli altri Paesi europei; mentre è più elevato il peso delle imposte sui redditi di impresa e di lavoro. Le Country Specific Recommendations del Consiglio europeo all’Italia ci invitano ad ampliare la riduzione del cuneo fiscale e a spostare i carichi tributari verso i consumi, le fonti di inquinamento ambientale e l’imposizione ordinaria dei patrimoni. Il riequilibrio dei carichi verso i consumi può essere effettuato, più che aumentando ancora l’aliquota Iva ordinaria, con la graduale e costante convergenza in un orizzonte temporale adeguato (ad esempio 10 anni) verso tale aliquota delle aliquote ridotte.
Per ridurre le distorsioni, è fondamentale realizzare, oltre al tendenziale allineamento delle aliquote Iva, un’organica risistemazione della disciplina delle altre tax expenditures (si ricordi che, secondo recenti stime del Fondo Monetario Internazionale, tali agevolazioni assorbono, nell’insieme, circa 8 punti di Pil). L’eliminazione degli attuali incentivi obsoleti e settoriali, che disperdono risorse e producono effetti distorsivi sull’allocazione degli investimenti, implicherà un aumento della pressione fiscale, ma al contempo un deciso miglioramento della neutralità del sistema. Allo stesso modo vanno gradualmente superati i sussidi settoriali (ad es. trasporti locali, Poste e Ferrovie), con corrispondente aumento delle tariffe dei servizi.
Un vantaggio non secondario delle misure prospettate (Iva e riduzione dei sussidi) è quello di realizzare una sorta di “svalutazione fiscale” che contribuirebbe a riportare l’inflazione a livelli meno “patologici” rispetto a quelli attuali (diciamo tra il 2 e il 3 per cento rispetto allo 0,3 attuale) favorendo la sostenibilità del nostro debito pubblico. Ovviamente sia l’intervento sull’Iva che quello sulle tariffe e i sussidi richiedono di dedicare una parte delle risorse raccolte a forme dirette di compensazione per i contribuenti a più basso reddito o per particolari categorie di essi (studenti, pendolari, ecc.). Le erogazioni agli incapienti e, in particolare, ai poveri ‘assoluti’ potrebbero essere effettuate direttamente dall’Inps più che attraverso forme di imposta negativa sul reddito.
Sarebbe opportuno unificare i diversi tributi di natura patrimoniale introdotti nel nostro ordinamento in una contenuta imposta patrimoniale ordinaria a carattere generale, che esenti i beni strumentali all’attività produttiva. Sarebbe altresì opportuno prevedere l’indicazione delle componenti dei patrimoni personali in sede di dichiarazione dei redditi; circostanza che faciliterebbe anche la verifica della loro congruità rispetto ai redditi dichiarati.
Può essere valutata l’opportunità di introdurre imposte ambientali che, se ben costruite, possono incentivare la crescita economica. Il sistema attuale non è ancora riuscito a ridurre significativamente le emissioni inquinanti; la delega oggi in fase di attuazione consente una profonda rivisitazione del sistema di tassazione ambientale – oggi sostanzialmente coincidente con le accise sui prodotti energetici e le tasse sui veicoli, alle quali si aggiungono le tasse sulle emissioni e sui conferimenti in discarica – prevedendo nuove forme di fiscalità (green taxes) finalizzate a incoraggiare i comportamenti virtuosi in materia di tutela ambientale e a penalizzare, al contempo, l’impiego di prodotti più inquinanti.
II. La tassazione dei redditi
Al centro di una riforma fiscale favorevole alla crescita si pone il tema della tassazione dei redditi di impresa. Bisogna semplificare e ricondurre a unitarietà un sistema deformato negli ultimi dieci anni da una miriade di interventi ad hoc, sempre giustificati con l’emergenza finanziaria: le aliquote speciali via via introdotte per settori di impresa (banche, assicurazioni, imprese petrolifere) devono essere eliminate, magari prima che lo faccia la Corte costituzionale. L’attuale polverizzazione del sistema di tassazione delle imprese è di grave ostacolo per lo sviluppo dell’attività economica.
Questione fondamentale per il reddito d’impresa è il superamento del sistema del doppio binario fiscale, attraverso la tendenziale convergenza del reddito imponibile all’utile civilistico. In un sistema non distorto, la rilevanza fiscale delle componenti valutative del reddito d’impresa non può discostarsi dalle risultanze di bilancio. L’impresa va dunque lasciata libera di seguire, anche a fini fiscali, i principi civilistici seguiti nella redazione del bilancio (principi peraltro presidiati da specifiche norme). Maggiore libertà nella deduzione fiscale degli ammortamenti consentirebbe, ad esempio, di rafforzare la domanda di investimento da parte delle imprese senza determinare una perdita di gettito fiscale, ma solo una sua riallocazione temporale, dato che gli ammortamenti subito dedotti non sarebbero più disponibili negli anni successivi.
Anche nel caso in cui la realizzazione di questa riforma, destinata a produrre grandissimi vantaggi in termini di neutralità e semplicità del sistema, dovesse comportare una riduzione del gettito, questa dovrebbe essere considerata parte del riequilibrio dei carichi fiscali nel nostro sistema. Un profilo di criticità, in questa prospettiva, resta peraltro la scelta fatta dal nostro Paese di consentire l’applicazione al bilancio civilistico degli Ias, nei quali la diffusa presenza di elementi valutativi introduce elementi indesiderabili di incertezza o eccessiva variabilità nella definizione del reddito imponibile.
Gli utili reinvestiti dovrebbero essere completamente detassati, rafforzando dunque ulteriormente il regime di favore già introdotto con l’Ace. Lo scopo è evidente: si potenzia l’incentivo a capitalizzare le imprese e si scoraggia la distribuzione degli utili.
Occorre ridurre significativamente il cuneo fiscale, portandolo al livello dei principali concorrenti europei e rendere permanente la tassazione a imposta sostitutiva del 10 per cento della retribuzione c.d. incentivante, legata alla contrattazione di secondo livello, possibilmente aumentandone le soglie.
Il perseguimento di obiettivi di semplicità e neutralità del sistema di tassazione dei redditi d’impresa impone di intervenire con decisione anche sulla materia delle deduzioni e dei crediti di imposta. Per adeguare gli incentivi all’effettivo core business delle imprese, occorre limitare deduzioni e crediti ad obiettivi chiari e normativamente predeterminati (essenzialmente ricerca e sviluppo, innovazione, efficienza ambientale) e prevedere un unico plafond, in relazione al quale ciascuna impresa può scegliere le spese deducibili. Un sistema analogo ad unico plafond, in luogo di quello attuale basato su una congerie di specifiche detrazioni e deduzioni, potrebbe applicarsi anche alla tassazione dei redditi personali con l’Irpef.
L’obiettivo della neutralità richiede che i redditi da investimento – da attività finanziarie, immobili, dividendi – siano fiscalmente trattati in modo unitario, idealmente con aliquote simili a quelle previste per il reddito di impresa. Da questo punto di vista, il mantenimento del trattamento di favore riservato ai rendimenti dei titoli pubblici, mentre si aumentava l’aliquota dei redditi da investimento finanziario al 26 per cento, aggrava la distorsione a danno dell’investimento in attività produttive e dei flussi d’intermediazione verso le imprese. Il basso livello dei tassi d’interesse e il favorevole clima di mercato avrebbero invece consentito di allineare l’aliquota sul rendimento dei titoli di Stato alle altre senza significative ripercussioni sui prezzi dei titoli.