Nel settore della ricerca pubblica l’Italia investe meno della media europea. Se rapportato alle risorse impegnate e ai ricercatori, l’output risulta però elevato e la sua qualità media, condotta presso università ed enti di ricerca, non è molto lontana rispetto a paesi vicini come la Francia, nonostante presenti difficoltà di affermazione nelle punte più avanzate. Lo ha rilevato un’indagine svolta dalla Banca d’Italia.
Il sistema italiano, piuttosto articolato e frammentato nei soggetti che vi operano e nelle fonti di finanziamento, risente di una scarsa applicazione dei risultati e di una debole collaborazione con le imprese, che a loro volta investono poco e incontrano difficoltà a collegare la propria attività di ricerca con i centri di ricerca pubblica. Il sistema soffre inoltre la mancanza di una chiara strategia che stabilisca gli obiettivi da raggiungere, i modelli organizzativi delle strutture di ricerca e definisca le risorse necessarie al loro raggiungimento. La motivazione può essere rintracciata in una certa resistenza della ricerca pubblica italiana ad adottare nuovi modelli organizzativi e nuovi meccanismi di incentivazione, come invece accade in altri paesi, e nel limitato investimento delle imprese nelle attività di ricerca e sviluppo.
Secondo i dati Istat e OCSE, in media nel quinquennio 2006-2010 operavano in Italia 97 mila ricercatori (inclusi quelli pubblici e privati), pari a 4,2 ogni 1.000 occupati; erano 3,3 nel quinquennio precedente. Negli altri maggiori paesi europei, la presenza di ricercatori è più numerosa e capillare: 224 mila in Francia (8,7 ricercatori per 1.000 occupati); 304 mila in Germania (7,9per 1.000 occupati); 250 mila nel Regno Unito (8,6 per 1.000 occupati); 128 mila in Spagna (6,5 per1.000 occupati). Rispetto a Francia e Germania, l’incidenza dei ricercatori è particolarmente bassa nel settore privato. Secondo i dati OCSE, la spesa per ricercatore – espressa a valori costanti e a parità di potere di acquisto – è stata pari, nel quinquennio 2006-2010, a 209 mila dollari in media all’anno, in calo rispetto al quinquennio precedente e inferiore solo a quella della Germania.
La spesa per la ricerca pubblica è destinata a due grandi aree di riferimento: la ricerca di base e la ricerca applicata. Sia per la prima sia per la seconda, i finanziamenti sostengono progetti definiti “strategici a livello nazionale” e progetti specifici di ricerca condotti da enti di ricerca, università, consorzi o imprese consortili, imprese, fondazioni, ecc.
Ma da dove vengono le risorse pubbliche per la ricerca? I fondi pubblici per la ricerca sono innanzitutto di provenienza nazionale, attraverso finanziamenti concessi dai Ministeri per sostenere sia le istituzioni pubbliche deputate alla ricerca (Università ed Enti pubblici di ricerca), sia le imprese e gli altri soggetti privati che realizzano progetti di ricerca. Attualmente, i principali fondi o programmi gestiti dal MIUR sono il FFO (Fondo Ordinario per le Università), destinato al complessivo funzionamento delle Università; il FOE (Fondo per gli Enti pubblici di Ricerca), destinato al complessivo finanziamento degli Enti Pubblici di Ricerca vigilati dal MIUR; il PRIN (Progetti di Ricerca di rilevante Interesse Nazionale), destinato alle Università; il FIRB (Fondo Integrativo Ricerca di Base), destinato a Università e a Enti di Ricerca che collaborano con imprese; il FAR (Fondo per le Agevolazioni alla Ricerca), che finanzia la ricerca industriale.
La pressante necessità di un rilancio della capacità innovativa del Paese non può prescindere da un sistema della ricerca pubblica adeguatamente finanziato ed efficientemente governato. Risulta però evidente che, date le difficoltà del bilancio pubblico, non è semplice reperire risorse aggiuntive per la ricerca. Occorre innanzitutto che il paese conduca una seria riflessione sui punti di forza e di debolezza del sistema e sulle finalità di lungo periodo che si intendono perseguire. Al momento i tagli apportati al finanziamento ordinario delle università (circa 750 milioni in termini nominali tra il 2008 e il 2013) non appaiono, ad esempio, coerenti con gli impegni presi nell’ambito di Europa 2020 per un’espansione della quota di giovani laureati, né sembrano basarsi su una chiara strategia nel campo della ricerca e della innovazione.
Nell’insieme, si stenta a individuare una strategia nel finanziamento e nel governo della ricerca, nella programmazione, nel monitoraggio e nella valutazione dei progetti, nell’individuazione di sinergie all’interno del livello nazionale e tra politiche regionali, nazionali ed europee. Data la rilevanza del settore, la riflessione sugli obiettivi da perseguire, sulle risorse da destinare alla ricerca e all’università e sulla governance del sistema fatica a trovare spazio nel contesto politico ed economico nazionale e ad alimentare un vero dibattito pubblico sulle scelte da compiere. Nessuna attività di valutazione può tuttavia sostituirsi alla definizione di chiari obiettivi sulla base dei quali costruire una strategia di lungo periodo, anche se è vero che nessuna strategia credibile può essere costruita senza una visione chiara dello stato del sistema e dei suoi elementi di forza e debolezza.