Può apparire paradossale, ma mentre al centro del dibattito politico per l’elezione del Parlamento Europeo infuria lo scontro sui vincoli di bilancio, sulla Bce e sull’Euro, la stragrande maggioranza dei cittadini dei Paesi membri crede che l’Ue sia, insieme agli Stati nazionali, l’organismo meglio attrezzato per affrontare gli effetti della crisi economica e finanziaria internazionale ed è a favore dell’Euro; lo rivela l’indagine demografica di Eurobarometro della fine dello scorso anno. Nello stesso tempo, però, questa stessa indagine evidenzia una crescente sfiducia nella capacità delle Istituzioni europee di elaborare ed attuare le misure necessarie per rispondere ai bisogni e alle aspettative indotti dalla crisi economica e sociale che, in varia misura, attanaglia i Paesi membri.
Questo deficit di credibilità nasce dalla contraddizione che si è progressivamente approfondita fra le ragioni politiche e quelle economiche del progetto di unificazione europea. Man mano che procedeva l’integrazione è cresciuta l’esigenza di una politica economica comune e quindi del conferimento di nuove porzioni di sovranità alle istituzioni europee e di una loro maggiore legittimazione democratica: un dilemma che è diventato sempre più drammatico con la crisi economica internazionale.
Mentre la globalizzazione e la ridistribuzione del potere economico e finanziario con l’entrata in scena di nuove potenze industriali mondiali come la Cina e l’India, ha spostato l’asse del potere decisionale al di fuori dei confini nazionali, la debolezza delle Istituzioni europee ha spinto parte delle classi dirigenti degli stati membri ad allentare o mettere in discussione i vincoli comuni e persino l’Euro che costituisce la chiave di volta dell’impalcatura economica dell’Ue.
Per contro un’altra parte delle classi dirigenti, guidata dalla Germania, ha utilizzato questi vincoli e la difesa dell’Euro per salvaguardare i propri interessi nazionali. Proprio nel momento in cui sarebbe stato necessario alzare il tasso di sopranazionalità mediante politiche comuni per stimolare investimenti e occupazione, si è verificata, quindi, una convergenza obiettiva fra strategie contrastanti in nome dell’interesse nazionale. L’istituzione dell’Euro è stato l’estremo confine raggiungibile mediante la strategia dell’allargamento dell’ integrazione economica come volano per l’unità politica.
A partire da quel punto si è imposto un rovesciamento delle priorità: il governo politico dei processi economici e finanziari è apparso come lo strumento principale per la gestione dell’economia. Sotto questo profilo qualche passo avanti è stato fatto, sia dal punto di vista istituzionale che della democratizzazione dei processi decisionali, ma oggi è chiaro a tutti che ciò non basta: porre dei vincoli, come il fiscal compact e le altre misure cautelative sulle politiche fiscali e di bilancio, comporta una restrizione della sovranità degli stati membri, ma non trasferisce poteri di governo alle istituzioni europee e non consente di decidere il reperimento e il trasferimento di risorse comuni per perseguire gli obiettivi economici e sociali concordati.
Di fronte a politiche recessive come quelle adottate dalla maggior parte delle classi dirigenti europee, alle drammatiche conseguenze sociali e agli squilibri profondi fra gli stati membri che ne sono derivate si è manifestata prepotentemente la mancanza di istituzioni europee capaci di elaborare politiche sopranazionali che non si limitino a reazioni congiunturali, ma affrontino i problemi strutturali della crisi nei suoi risvolti interni ed esterni all’Unione. L’attacco all’Euro è, dunque, un attacco alla UE e un colpo mortale ala sua stessa esistenza e al progetto di unità politica dell’Europa.
I movimenti politici demagogici che chiedono l’uscita dall’Euro ( che, comunque, restano una minoranza) coltivano l’illusione che un ritorno agli stati nazionali consentirebbe il recupero della sovranità monetaria , il controllo dei flussi di capitali, il blocco della circolazione della manodopera e dell’immigrazione. In realtà, aldilà degli effetti catastrofici che l’uscita dall’Euro comporterebbe, la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe quella di finire in balia del potere finanziario transnazionale, delle grandi potenze industriali e delle multinazionali (legali e illegali) privi di apparati di difesa economica, politica e militare. E’ difficile credere che questa prospettiva possa allettare la maggioranza dei cittadini europei.
Alla sfiducia che serpeggia le classi dirigenti responsabili dei paesi europei, a partire dall’Italia che ne subirebbe gli effetti peggiori, devono rispondere con uno scatto in avanti: la politica deve prendere il sopravvento sull’economia; abbiamo bisogno, non di meno, ma di più sopranazionalità e, quindi, di più democrazia. Il problema non è l’allentamento di qualche vincolo formale, che, anche se discrezionale, è il segnale di una garanzia comune, ma il suo assorbimento in un disegno politico più ampio che implichi strategie di crescita e di sviluppo, poggianti sul risanamento delle strutture economiche e sociali di ciascun paese membro come condizione per usufruire di risorse comuni.
Bisogna, tuttavia, superare quella che Moises Naim, in suo bel libro, chiama la “vetocrazia”, cioè il potere di interdizione che impedisce la governabilità. In un’Europa a 28 Stati, la disparità di sviluppo, di livello sociale, politico e culturale e condizioni geopolitiche diverse, la vetocrazia costituisce un ostacolo impervio. Sono, pertanto, necessari, non solo una gradualità nei processi di unificazione, ma anche gradi di integrazione politica a geometria variabile; in questo senso appare condivisibile la proposta, contenuta in un articolo di Antonio Armellini sul Corriere della Sera, di fare dell’Euro il volano dell’accelerazione del progetto unitario costituendo un Consiglio dei ministri dell’Euro accompagnato da uno strumento parlamentare come quello immaginato dal ”gruppo Eiffel”.
In questo modo nel quadro di un disegno condiviso, che verrebbe sviluppato in tempi e modalità diverse, si consentirebbe ai paesi che lo desiderano di far crescere l’architettura istituzionale unitaria in una nuova forma sopranazionale reticolare. Se questi temi che verranno affrontati dal nuovo Parlamento Europeo forse queste elezioni potrebbero costituire uno spartiacque nella storia dell’Ue.