Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, in una delle prime dichiarazioni ad effetto, annunciò un taglio della bolletta elettrica del 10%. La cosa si è poi trasformata in una ipotesi di redistribuzione dei pesi a beneficio delle imprese piccole e medie che sono oggettivamente le più svantaggiate. Al di là degli aspetti formali, nella sostanza condividiamo totalmente l’obiettivo strategico: ridurre il costo dell’energia è una delle condizioni fondamentali per rilanciare la competitività del Paese e, in certi misura, anche per limitare i processi di delocalizzazione industriale e produttiva.
Ma come fare in concreto? In realtà bisogna agire sulle varie componenti di costo che finiscono in bolletta e che hanno avuto intense dinamiche negli scorsi anni. Si tratta anche di incidere su interessi consolidati pronti a reagire per il mantenimento dello status quo. Management delle Utilities e delle Infrastrutture intende avviare un dibattito su questi temi; contributi di idee e suggerimenti sono benvenuti (inviare a: andrea.gilardoni@unibocconi.it). I più interessanti verranno pubblicati sulla Rivista o diffusi anche in altri modi.
Di seguito alcune riflessioni che sappiamo bene essere sommarie e provvisorie. Ma vanno intese come momento di avvio della discussione.
Le rinnovabili nuovamente prese di mira
Innanzi tutto, mi siano concesse delle perplessità circa il fatto che siano state nuovamente prese di mira le rinnovabili e le sovvenzioni a loro beneficio che, obbiettivamente, sono state eccessive negli anni; l’idea è di allungare la scadenza dei benefici, abbattendone l’attuale livello e trasferendo i risparmi conseguiti a beneficio delle PMI. In questo modo l’onere complessivo non si ridurrebbe ma si spalmerebbe su un periodo più lungo. Tale intervento sarebbe limitato al fotovoltaico, anzi ad una parte di esso.
Io credo che questa soluzione abbia una serie notevole di svantaggi, bene riassunti da vari esponenti del mondo delle rinnovabili e dal sistema bancario. Le banche, in particolare, hanno sottolineato il rischio di default di molti finanziamenti in essere; nell’attuale contesto caratterizzato da numerose posizioni incagliate (non performing loans) ciò sarebbe un aggravio assolutamente inaccettabile. Inoltre, l’immagine del Paese sarebbe compromessa rendendo meno probabili i futuri investimenti degli operatori internazionali anche in settori totalmente diversi dalle rinnovabili. Non ultimo, poi, vi sono i costi vivi e burocratici necessari per ridefinire tutti gli accordi stipulati in sede di costruzione degli impianti: vanno rinegoziati i contratti di finanziamento, quelli concessori, gli affitti dei terreni, ed altri ancora, sempre ammesso che ciò sia tecnicamente possibile. Essendo centinaia di migliaia gli impianti potenzialmente toccati dal provvedimento (anche se la stima è di circa 10.000), il sistema si troverebbe a sostenere qualche miliardo di euro di costi (legali, amministrativi, bancari, ecc.) per un provvedimento che non genererebbe alcun beneficio se non di natura politica (e anche questo sarebbe da dimostrare essendo il mondo delle rinnovabili certamente ampio e di peso non trascurabile).
Altre soluzioni sono state proposte. In particolare, con gli attuali bassi tassi di interesse, si può agevolmente immaginare che il GSE si indebiti per l’ammontare necessario (ma anche la Cassa Depositi e Prestiti potrebbe svolgere forse meglio questo ruolo), destinando i proventi alla riduzione della bolletta dei soggetti su cui si desidera intervenire (PMI). L’indebitamento del GSE (o della CDP) verrebbe poi restituito a 20 anni. Risulta che vari soggetti finanziari di standing globale sarebbero disponibili a sostenere l’iniziativa. I vantaggi di questa ipotesi risiedono nel fatto che il costo dell’operazione per il sistema risulterebbe di gran lunga inferiore.
In ogni caso, il mondo delle rinnovabili ha oramai raggiunto un peso specifico così ampio che impone l’assunzione di specifiche responsabilità. Anche se è vero che nei mesi scorsi sono stati caricati su questi operatori oneri imprevisti nell’ordine del miliardo e mezzo di euro, è anche vero che vi sono spazi di recupero di efficienza e che, comunque, tale mondo deve contribuire al contenimento del costo della bolletta. La cosa più corretta è che sia esso stesso a formulare le proposte più idonee. Più in generale, si apre il tema della ridefinizione complessiva del ruolo delle rinnovabili nel quadro di una riformulazione del mercato elettrico e dei mercati ad esso ancillari. Ma ciò ci porterebbe lontano e non è questo il momento.
Pensare ad interventi strutturali
Ma accanto a ciò che si può fare nel breve, è fondamentale avviare una serie di azioni aventi una sostanziale connotazione di politica industriale, tese cioè a ridurre strutturalmente il costo della bolletta. In particolare, credo che vada avviato un programma pluriennale di interventi – che ritengo debbano essere assolutamente concordati con gli operatori – che accompagni la progressiva cancellazione dei sostegni oggi esistenti. E ciò potrebbe essere finanziato dai fondi europei destinati all’efficienza energetica.
Pensiamo, ad esempio, ai grandi energivori. Per essi gli interventi di sostegno per la riduzione delle loro bollette costano alcune centinaia di milioni di euro all’anno (l’interrompibilità vale circa 800 milioni di euro; la stima complessiva per gli energivori di Legambiente è di circa 1,5 miliardi di euro). Si potrebbe prevedere la progressiva riduzione di almeno parte di tali benefici (ad esempio, in quattro anni) agevolando in vario modo progetti volti a ridurre i costi energetici, a recuperare l’energia dissipata e, più in generale, a ritrovare la competitività delle produzioni. Tali interventi, sostanzialmente riconducibili alla efficienza energetica, potrebbero essere finanziati dai vari fondi anche europei che, tra l’altro, in molti casi non riusciamo neppure a sfruttare. Oggi, gli sconti per gli energivori hanno il paradossale effetto di non spingerli a ricercare l’ottimizzazione dell’efficienza, rimanendo così strutturalmente meno competitivi.
Una operazione di questo genere, se ben costruita e gestita, porterebbe ad una serie notevole di benefici. Ad esempio:
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Consentirebbe lo sviluppo/rafforzamento delle tecnologie possibilmente italiane nell’efficienza energetica (che hanno poi potenziali di mercato a livello mondiale)
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Renderebbe più probabili il mantenimento delle produzioni in Italia, con evidenti effetti occupazionali e anche sui consumi energetici;
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Potrebbe addirittura favorire un aumento degli investimenti e delle produzioni in Italia dei beni in oggetto.
Pensiamo ancora al sovvenzionamento delle produzioni elettriche nelle isole il cui costo annuo è di circa sessanta milioni di euro. Sempre programmando la cancellazione delle sovvenzioni in un opportuno arco temporale, si potrebbe pensare di finanziare lo sviluppo di impianti rinnovabili, magari affiancando accumulatori per garantire la continuità, sperimentando così una tecnologia innovativa e ottenendo pure significativi vantaggi ambientali.
Un cenno anche al regime tariffario speciale a vantaggio del trasporto ferroviario che vale circa 400 milioni di euro all’anno e che risale al 1963 a fronte delle cessioni di impianti produttivi a Enel. Di ciò beneficiano le Ferrovie dello Stato e, in certa misura, anche i concorrenti. Al di là della legittimità di tale benefici, le Ferrovie sono il più grande consumatore di energia del Paese; è plausibile che da uno studio approfondito e da una serie di investimenti mirati (anche qui quasi certamente finanziabili dai fondi europei sull’efficienza) si possa aumentare l’efficienza. Si tratta anche in questo caso di sviluppare una prospettiva tecnologico-industriale di medio termine d’intesa con gli operatori.
Contrarre i costi di trasporto e distribuzione
Altra area su cui incidere concerne i costi di trasporto e di distribuzione sia di gas che di elettricità il cui peso è significativamente cresciuto negli anni scorsi (oggi varia dal 14% al 17% della bolletta a seconda dell’utente, imposte di consumo escluse). In coerenza con la attuale forte discesa dei tassi di interesse, ci si chiede se non debba essere abbassata la remunerazione della RAB, riducendo altresì i casi ove la remunerazione è maggiorata; si dovrebbe poi immaginare la moratoria di ogni nuovo investimento infrastrutturale che aggravi la tariffa con l’eccezione di quelli che si dimostrino assolutamente e inderogabilmente necessari per il Paese. D’altronde, la forte riduzione dei consumi di questi anni deve imporre la massima attenzione nell’accettare da parte del Ministero ulteriori estensioni delle infrastrutture che non siano ampiamente e sicuramente giustificate da ragioni commerciali o strategiche.
Evitare fattori che appesantiscano la bolletta
Accanto alle azioni per ridurre la bolletta bisogna anche evitarne i possibili incrementi. Due esempi di aree problematiche: il capacity payment e lo sviluppo delle reti locali. Il capacity payment rischia di essere un modo per salvare aziende in difficoltà o sull’orlo del fallimento e, come è noto, ciò vale specialmente per quelle che hanno investito nella generazione a gas con cicli combinati. Il capacity payment è evocato per fronteggiare la variabilità delle produzioni delle rinnovabili garantendo la stabilità del sistema. Il punto è ovviamente rilevante. Credo però che la strada maestra sia quella di responsabilizzare i produttori con fonti rinnovabili nel garantire certezza delle forniture, scaricando così il ruolo del system operator; saranno questi che ricercheranno la soluzione preferibile e più economica. In questa direzione si stanno muovendo in altri paesi europei. Ciò, tra l’altro, si inquadra in una prospettiva di pieno coinvolgimento delle rinnovabili in un contesto in cui hanno raggiunto un certo grado di maturità e un ruolo rilevante nel sistema.
Circa il consumo in sito, i Seu e altre soluzioni similari, talune delle quali sono di sicuro interesse e fortemente innovative, si tratta di ricercare un corretto equilibrio. Da un lato, non si devono bloccare le attività di sviluppo e di sperimentazione con potenziali ricadute anche nel medio termine; dall’altro, non di devono generare ulteriori costi di sistema a carico degli utenti finali. È però evidente che lo sviluppo del consumo in sito potrebbe anche alleggerire la bolletta di operatori e famiglie. L’unica area dove ci sembra utile immaginare qualche crescita è nell’aumento dei finanziamenti all’efficienza energetica, che fino ad oggi sono stati molto timidi. Ma questo è un tema da vedere nel suo complesso.
Varare una azione su più fronti in un’ottica di condivisione con gli operatori
In conclusione, non crediamo che ci siano soluzioni miracolistiche che risolvano il problema d’emblée. Operazioni ad effetto immediato possono essere utili a dare segnali, a favorire la redistribuzione degli oneri, ma il problema è un intervento strutturale che agisca su più fronti. Rilevanti sono anche molti altri temi qui non trattati. Ad esempio, ancora una volta senza pretesa di completezza, c’è la questione degli oneri legati alla (incredibile) esperienza nucleare (la Sogin e le aziende che le offrono servizi hanno costi certamente non modesti); c’è la questione dell’”interconnector” virtuale che vale circa 330 milioni di euro (ancora da vedere sono le interconnessioni reale…); c’è la componente fiscale che comunque ha un peso rilevante; c’è il costo dei vettori energetici che si mantengono alti anche se in calo; c’è il PUN che è fortemente calato con una serie di impatti rilevanti su operatori e consumatori, e via dicendo.
Il Governo deve, credo, mettere a punto un progetto complessivo ove molti soggetti siano chiamati a dare un contributo, a fare un passo indietro. Se tutti gli attori del sistema lo facessero, alla fine il costo per ciascuno sarebbe ben sopportabile e il Paese ne beneficerebbe appieno.