Condividi

Buon compleanno Ue: 64 anni fa la “dichiarazione Schuman”

Il 9 maggio 1950 Robert Schuman, ministro degli esteri francese, proponeva di riunire sotto un unico “cappello” sovranazionale la produzione delle due principali materie prime, il carbone e l’acciaio, utilizzate sino a quel momento per produrre le armi che avevano insanguinato l’Europa.

Buon compleanno Ue: 64 anni fa la “dichiarazione Schuman”

“L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Con queste parole pronunciate esattamente 64 anni fa (il 9 maggio, giorno in cui ogni anno si celebra la Festa dell’Europa) in un salone del Quai d’Orsay, la sede del ministero degli Esteri francese, Robert Schuman, titolare di quel dicastero, aprì un nuovo rivoluzionario capitolo della storia d’Europa. Rivoluzionario senza dubbio alcuno. Poiché – appena tre anni dopo la conclusione di un conflitto che aveva insanguinato e devastato l’intero continente – proponeva al nemico di sempre, la Germania (e agli altri Paesi che avessero voluto aderire), di riunire sotto un unico “cappello” sovranazionale la produzione delle due principali materie prime, il carbone e l’acciaio, utilizzate sino a quel momento per produrre le armi che avevano insanguinato l’Europa.

E aggiunse che “la fusione (sì, Schuman usò proprio il termine fusione – n.d.r.) della produzione di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea. E cambierà il destino di regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime”. Cioé le regioni di confine fra la Francia e la Germania, che Schuman, francese di frontiera nato a Lussemburgo, conosceva bene essendo stato deportato in Germania dai nazisti nel 1940. Ed essendo riuscito a scappare dalla prigionia due anni dopo per rientrare in Francia dove si sarebbe unito alla Resistenza contro l’occupazione tedesca.

Quella rivoluzionaria proposta fu, come si sa, accolta subito dalla Repubblica federale tedesca (la parte della Germania che non era finita sotto il tallone di Stalin) guidata allora da un altro europeista convinto, il cancelliere Konrad Adenauer. Quest’ultimo, con ogni probabilità preavvisato dell’iniziativa francese attraverso riservatissime vie diplomatiche, dovette assicurare l’assenso preventivo del suo Paese. All’adesione della RFT si unirono subito l’Italia, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo per far nascere neppure un anno dopo la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Ossia il primo concreto germoglio che nell’arco di mezzo secolo avrebbe dato vita a quella che oggi si chiama Unione europea. Un’organizzazione che da meno di un anno fa comprende ben 28 Stati sovrani, che non è né una federazione, come auspicava Schuman, né una confederazione; ma i cui membri hanno trasferito all’Unione gran parte delle loro competenze.

Un’organizzazione che non ha paragone al mondo, nata da un progetto visionario concretatosi poi per l’apporto di uomini fuori dal Comune: oltre a Schuman, con il suo “mentore” Jean Monnet, e ad Adenauer, meritano la definizione di “padri fondatori” dell’Europa quanto meno Alcide De Gasperi, il belga Paul-Henri Spaak e, più avanti nel tempo, Altiero Spinelli. Uomini che, in un’Europa ancora piena di macerie, interpretarono e alimentarono quell’aspirazione alla pace all’origine di un europeismo in crescita costante per alcuni decenni. Uomini che, lanciando il cuore oltre l’ostacolo, raggiunsero il cuore dei cittadini alimentandone la fiducia nei confonti dell’Europa.

Negli italiani, in particolare, questo sentimento era più marcato rispetto agli abitanti di altri Paesi europei, come testimoniavano i dati relativi all’affluenza alle urne quando si votava per l’Europarlamento. Votazioni precedute da campagne elettorali nel corso delle quali si parlava più di temi interni che di programmi per l’Europa.Un paradosso, certo. Ma non troppo se si pensa che, secondo i sondaggi demoscopici, la conoscenza dei temi europei da parte dei nostri connazionali si manteneva su livelli particolarmente bassi. 

Il sentimento pro-Europa da parte non soltanto degli italiani ma anche dei cittadini di altri Stati membri (eslusi i britannici, i cui governanti sono stati sempre con un piede dentro e uno fuori) è stato alimentato anche da alcuni rilevanti successi europei che hanno oggettivamente cambiato, perlopiù in meglio, la vita dei cittadini. Innanzi tutto la nascita, per altro ancora non del tutto compiuta, del mercato unico. Inoltre – fra le novità che hanno colpito l’immaginario collettivo ma che hanno avuto non indifferenti vantaggi pratici per i cittadini – l’eliminazione delle frontiere fra gli Stati membri, la crescita esponenziale del traffico aereo e la parallela riduzione delle tariffe. E poi, soprattutto, Erasmus, il programma di scambi per gli studenti universitari, che, pur con qualche inciampo, ha alimentato l’apertura mentale e la crescita culturale di un’intera generazione di giovani.

Infine l’euro, visto inizialmente da molti come un virus che ha alimentato l’inflazione: accusa con un minimo di fondamento, è vero. Anche se l’affermazione, al tempo molto diffusa, secondo la quale i prezzi al consumo con l’introduzione della moneta unica si erano raddoppiati può essere considerata una leggenda metropolitana che nessun economista serio ha mai sottoscritto. Mentre fra gli esperti è condivisa ampiamente l’opinione che, senza l’euro, la povera lira sarebbe miseramente affondata, E, con la moneta nazionale, l’Italia intera.

Ripercorrere il cammino dell’integrazione europea nel corso di oltre mezzo secolo sottolineandone alcuni indubbi successi, non può portare però alla conclusione che “tutto va ben, madama la marchesa”. Il malessere economico e sociale di oggi è autentico; ed è documentato dai dati, oltre che dalle testimonianze di vita quotidiana. C’è l’aumento della disoccupazione, che in Italia non raggiunge i tassi della Spagna o della Grecia ma è comunque preoccupante da noi e in gran parte d’Europa. C’è poi, sullo stesso fronte, quella giovanile ormai a livelli non più accettabili. E c’è anche, a rafforzare la preoccupazione generalizzata, la difficoltà delle imprese, e anche dei cittadini, di ottenere credito.

Tutta colpa dell’UE, come sostengono a spada tratta alcuni partiti e movimenti in vista delle elezioni per il rinnovo dell’Europarlamento? No, poiché in un mondo sempre più globalizzato, non c’è posto per i piccoli. L’Europa però non è per nulla esente da responsabilità. Poiché l’insistenza ossessiva riguardo alle politiche di rigore (degli altri…) puzza un po’ di bruciato. Ma soprattutto perché l’austerità programmata a tavolino ha raggiunto, là dove è stata applicata, risultati positivi in termini di finanza pubblica. Ma, come del resto ha riconosciuto lo stesso Fondo monetario internazionale, non ha prodotto posti di lavoro.

E allora? Allora queste elezioni in arrivo impongono a tutti – governanti e semplici cittaadini, partiti politici e organismi di rappresentanza – l’esigenza di una riflessione approfondita per capire se sia meglio perseguire l’obiettivo del no all’Europa o quello di contribuire a realizzare un’Europa migliore. Libero poi ciascun elettore, nel segreto della cabina elettorale, di esprimere la scelta che ritiene più conveniente. Senza rinunciare però al diritto fondamentale di esprimere il proprio voto.

Commenta