Strasburgo chiede il “Made in” obbligatorio sulle etichette dei prodotti non alimentari e non farmaceutici. Il braccio di ferro durava da tempo. Da una parte l’Europarlamento, espressione della volontà popolare, dall’altra il Consiglio Ue, dove sono rappresentati i governi dei 28 Stati membri. Un tira e molla che, come per la proposta di dazi anti-dumping, sembrava non dovesse aver fine. E che, almeno per il momento, si è concluso con un voto dell’Assemblea di Strasburgo nella sua ultima sessione plenaria prima delle elezioni. Un voto che fissa intanto la posizione del Parlamento che comunque, nella sua nuova composizione, dovrà inevitabilmente arrivare a un’intesa con il Consiglio.
“Un grande passo avanti per la trasparenza della catena di fornitura di un prodotto, che rappresenta un indubbio vantaggio per i consumatori”, ha affermato una delle due relatrici del provvedimento, l’eurodeputata danese del gruppo parlamentare S&D Christel Schaldemose. Molto critica poi nei confronti degli Stati membri dell’Ue, “che non sono stati in grado di concordare una posizione comune, bloccando così il completamento dell’iter legislativo del regolamento (la legge europea direttamente applicabile in tutti gli Stati membri – n.d.r.), con danno della sicurezza dei consumatori in Europa”.
Gli eurodeputati, con questo voto (485 sì, 130 no, 27 astensioni), hanno accolto la proposta della Commissione europea di rendere obbligatoria quella che al momento è ancora un’opzione volontaria: ossia l’applicazione di un’etichetta con l’indicazione del Paese d’origine sui prodotti (esclusi alimentari e farmaci) venduti in tutti i Paesi dell’Unione europea. Cioè, per esempio, “made in Italy” o “made in Germany” o, più genericamente, “made in EU”; ma anche “made in China” o “made in Bangladesh”. Ma, per l’approvazione definitiva delle nuove norme, bisognerà attendere che Parlamento e Consiglio, nella loro veste di “colegislatori”, concordino una soluzione di compromesso: risultato che, realisticamente, non potrà essere conseguito prima della fine dell’estate.
Quanto alla definizione “Paese d’origine”, il testo approvato a Strasburgo specifica che serve a identificare lo Stato in cui il prodotto “è stato oggetto dell’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata”. Fase conclusasi con “la fabbricazione di un prodotto nuovo o che abbia rappresentato una fase importante del processo produttivo”, come recita il codice doganale dell’Ue.
Per quel che riguarda le sanzioni nei confronti di chi trasgredirà le norme quando saranno entrate in vigore, i deputati con un secondo provvedimento chiedono che queste siano “proporzionate e dissuasive” in rapporto alla gravità, alla durata e al carattere intenzionale o ricorrente della violazione oltre che della dimensione della società che se ne è resa responsabile. Sollecitano inoltre la Commissione di Bruxelles a istituire una lista nera delle imprese che “intenzionalmente e ripetutamente” violano le nuove norme di sicurezza dei prodotti. E infine propongono la creazione di una banca dati paneuropea dei prodotti risultati essere difettosi o pericolosi.
Le norme sulle sanzioni sono state approvate dall’Assemblea di Strasburgo in prima lettura (573 sì, 18 no, 52 astensioni) per garantire, come sottolineano i presentatori, che “il lavoro condotto durante questa legislatura possa essere ripreso dal nuovo Parlamento che potrà così utilizzarlo come base per ulteriori e si spera proficui negoziati con gli Stati membri”.
“Queste nuove regole in tema di sanzioni – osserva la relatrice del provvedimento, l’eurodeputata finlandese del PPE Sirpa Pietikãinen – costituisce comunque un passo importante in direzione di una più forte e coordinata sorveglianza a livello europeo, che accrescerà il grado di sicurezza dei prodotti commercializzati in tutta l’Ue”.