La lettera con cui la Commissione europea ha chiesto al Governo italiano spiegazioni sul decreto legge 133/2013, poi convertito con modifiche, che consente la rivalutazione delle quote di Bankitalia, rischia di aprire – nuovamente – il vaso di Pandora. La Commissione sospetta che dietro alla rivalutazione delle quote (dai 156mila euro del 1936 ai 7,5 miliardi di oggi) si nascondano aiuti di stato alle banche italiane. Con la gioia di quanti, spesso demagogicamente, hanno gridato alla svendita di Via Nazionale paventando un regalo agli istituti di credito che impoverirebbe le casse pubbliche e quindi i cittadini.
Il richiamo della Commissione è quindi un’altra buona occasione per fare chiarezza su alcuni punti, non proprio ben chiariti da buona parte della stampa. Innanzitutto, i 7,5 miliardi frutto della rivalutazione non sono fondi che vengono versati agli istituti. Vengono bensì spostati dalle riserve statutarie al capitale di Bankitalia. Da un punto di vista patrimoniale, quindi, non c’è indebolimento dell’istituto. La rivalutazione delle quote permette all’erario, come noto, di incassare dalle banche una tassa del 12% sulla plusvalenza, pari a circa 900 milioni di euro, già contabilizzati nella finanziaria 2014 per abolire parte dell’Imu sulla prima casa. A fronte di questo pagamento una tantum, gli istituti possono iscrivere a bilancio le quote rivalutate, rinforzandosi patrimonialmente, con riflessi potenzialmente virtuosi sulla capacità di far credito all’economia reale e di adempiere alle normative europee.
La legge prevede inoltre che nessun partecipante al capitale possa detenere più del 3% delle quote di Bankitalia. Unicredit e Intesa, che insieme posseggono il 52,4% delle 300mila quote, dovranno cedere sul mercato (a soli investitori italiani) la parte in eccesso. Qui, secondo alcuni osservatori, si nasconde un pericolo per le casse pubbliche. Vediamo perché. Secondo i critici, quando gli azionisti oltre il 3% dovranno (entro tre anni dal varo del decreto) aver ceduto sul mercato le loro quote, potrà sorgere il pericolo che queste ultime non siano abbastanza “appetitose”, e che quindi Banca d’Italia debba riacquistarle sborsando agli azionisti una parte delle riserve, impoverendosi patrimonialmente. Secondo Via Nazionale si tratta di un rischio inesistente.
La soluzione del “mistero” sta nell’ammontare dei dividendi che Via Nazionale paga (e pagherà) agli azionisti. Una premessa: anche Bankitalia produce utili (i cosiddetti utili da signoraggio, ovvero gli utili derivanti dall’emissione di moneta, l’attività tipica di una banca centrale). Una parte degli utili (il 40%), è destinata alle riserve, una parte va ai soci, il resto va allo Stato.
Con il vecchio statuto, il Direttorio poteva pagare agli azionisti dividendi fino al 10% del capitale e fino al 4% delle riserve. Queste ultime ammontano oggi a circa 22 miliardi. Di questi, 15 rappresentano la quota da cui si può attingere per remunerare gli azionisti. In totale, con il vecchio statuto, fino a circa 600 milioni di euro. Nei fatti, i piani alti di Bankitalia hanno (nel 2012) pagato dividendi per soli 70 milioni a fronte di un limite possibile di 600.
Con il nuovo statuto le cose sono cambiate: non si possono più distribuire dividendi fino al limite del 4% delle riserve (oltre al 10% del capitale che però era una cifra puramente simbolica, 15.600 euro), ma si possono versare ai partecipanti utili pari, al massimo, al 6% del capitale frutto della rivalutazione. Dunque 450 milioni (calcolati sui 7,5 miliardi). E’ evidente come, con la nuova carta, si sia posto in realtà un tetto più basso del precedente.
C’è chi fa notare che il problema risiede nell’effettiva appetibilità, sul mercato, delle quote eccedenti che dovranno essere vendute. Il ragionamento è semplice: se Bankitalia deciderà di continuare a pagare un dividendo basso (come i 70 milioni del 2012), nessuno vorrà acquistare le quote eccedenti, perchè queste ultime non saranno abbastanza redditizie. Un dividendo di 70 milioni su un capitale di 7,5 miliardi equivale a un rendimento lordo pari all’1% circa. Non molto, anche si tratta di titoli totalmente privi di rischio. Se, però, Bankitalia decidesse di pagare dividendi pari al limite massimo (450 milioni), ciò equivarrebbe a un rendimento del 6%. Ben altra cosa. I titoli sarebbero davvero molto remunerativi per essere privi di rischio. L’appetibilità sul mercato sarebbe certa, Bankitalia non dovrebbe sborsare un euro per ricomprare le quote eccedenti, ma il pagamento di un dividendo maggiorato comporterebbe, secondo i critici, una pari riduzione della quota di utile che va allo Stato, con danno per le casse pubbliche.
Anche questo pericolo, in realtà, è scongiurato, poiché con un’innovazione statutaria il rendimento delle riserve (queste ultime vengono investite e hanno quindi un rendimento), che prima veniva riversato nelle riserve stesse, verrà d’ora in poi liquidato al Tesoro. Tale rendimento, in media, negli ultimi dieci anni è stato di circa 466 milioni l’anno. Risulta evidente, quindi, che se anche il Direttorio decidesse di pagare un dividendo pari alla soglia massima di 450 milioni, quest’esborso sarebbe compensato dalla liquidazione al Tesoro dei rendimenti sopra citati. Non ci sarebbe alcun effetto perverso sulle casse pubbliche e quindi sulle tasche dei cittadini.
Ciò che risulta meno facile da comprendere è come mai l’ammontare dei dividendi non sia definito rigidamente e venga invece lasciato alla discrezionalità dei piani alti, indicando solo un tetto massimo. E come mai le banche abbiano diritto ad una parte degli utili, dal momento che le quote in loro possesso sono virtualmente prive di rischio. Non si capisce poi perché, in deroga allo Statuto, gli istituti che posseggono quote oltre la soglia del 3% continueranno a percepire i dividendi anche sulla parte eccedente. Ma da qui a considerare la complessa operazione di rivalutazione un regalo alle banche, ce ne passa.
Problemi, al massimo, potranno sorgere qualora la Commissione dovesse decidere che si tratta di aiuti di Stato. Aiuti comunque neutrali per le finanze pubbliche. Ma sarebbe un epilogo piuttosto incomprensibile dal momento che diversi istituti creditizi già contabilizzavano le quote a valori molto gonfiati rispetto al valore originario, pari a soli 0,52 euro ad azione contro i 25mila frutto della rivalutazione. Ciò che rende questa vicenda veramente grottesca è che il Governo abbia dovuto far ricorso a tale funambolismo finanziario per inseguire la propaganda berlusconiana sull’Imu.