Dallo scorso febbraio, il Servizio Export di FIRSTonline sta proponendo una serie di articoli dedicati alle opportunità di esportazioni e investimenti della classe imprenditoriale italiana in alcuni Paesi emergenti. Come è possibile notare ripercorrendo le ultime uscite, finora sono state presentate le Schede-Paese relative a Messico, Turchia, Argentina, Indonesia, Russia, Kuwait, Brasile, Vietnam e Polonia. Quest’oggi parliamo di India e prossimamente sarà la volta del Sudafrica.
Dai primi anni 2000 e sino al 2011, il PIL indiano aveva riportato percentuali, rispetto al proprio tasso di crescita, comprese tra il 10,5% e il 6,3%. A partire dal 2012, invece, si è assistito a un rallentamento dell’economia asiatica (tasso di crescita del PIL intorno al 3%) le cui motivazioni sono riconducibili a una riduzione delle esportazioni, alla contrazione del consumo privato, all’inflazione crescente, a una crescita della spesa pubblica, a sussidi vari e alla privatizzazione di imprese pubbliche. Nonostante questo calo, rimangono comunque in rialzo le previsioni economiche per il 2014 e il 2015 elaborate dal Fondo Monetario Internazionale per la Repubblica indiana. Queste stime, infatti, tengono in considerazione come, nonostante le perdite nel proprio PIL nazionale, l’India abbia dei punti di forza tali da non poter essere ignorati. Si pensi, per esempio, alla vastissima disponibilità di risorse naturali (l’India produrrebbe circa 87 tipi di minerali), alla diversificata base industriale, alla disponibilità di manodopera qualificata che parla fluentemente in inglese (seconda lingua ufficiale del Paese), a una classe media in ascesa e alla presenza di salari più bassi rispetto agli stessi in altre economie emergenti (reddito loro pro-capite annuo per indiano $3.910, per cinese $9.040, per brasiliano $11.530, per russo $22.720; dati Banca mondiale). Inoltre, dal punto di vista del commercio con l’estero, il rallentamento del PIL non ha modificato l’inclinazione del Paese rispetto ai propri scambi e alla propria apertura verso altre economie. L’India, difatti, rimane un Paese che guarda con ottimismo al commercio internazionale. Tale orientamento è ravvisabile, in particolare, in due misure adottate dal Governo guidato dal partito del Congresso Nazionale Indiano: lo Strategic Plan e la liberalizzazione di alcuni IDE stranieri. Lo Strategic Plan prevede per il breve-medio periodo l’obiettivo di raddoppiare le esportazioni di beni e servizi dell’India così come quello di raddoppiare la percentuale di partecipazione indiana al commercio internazionale entro il 2020. Tramite, poi, la concessione agli IDE di affluire in alcuni settori sino a poco tempo fa inaccessibili agli investimenti stranieri (come il multi-brand retail), il governo ha avviato un’importante fase nella propria politica di liberalizzazione degli investimenti e si prevede che in futuro potrebbero esserci ulteriori concessioni nei confronti degli IDE come, per esempio, nel settore dell’e-commerce B2C, nel ferroviario e nella costruzione di impianti industriali.
I rapporti bilaterali della più grande democrazia al mondo con il nostro Paese sono da tempo inaspriti dalla crisi diplomatica scoppiata il 15 febbraio del 2012 a causa della morte dei due pescatori indiani per mano dei marò della Enrica Lexia nel porto di Kochi. La controversia non ha però particolarmente leso i rapporti commerciali tra i due Paesi: dal 1991 l’interscambio tra l’Italia e l’India è cresciuto di 12 volte (secondo quanto riportato dal servizio InfoMercatiEsteri del Ministero degli Affari Esteri). Oggi l’Italia è, tra i membri dell’Unione europea, il quarto partner commerciale della Repubblica indiana e non sono solo i rapporti import-export a legare le nostre economie ma anche i flussi di investimenti che, da parte italiana, hanno superato la soglia dei tre miliardi di euro alla fine del 2012.
Le esportazioni che riscuotono maggiore successo in India riguardano il settore energetico (31,7% petrolio, 3,6% carbone), i metalli preziosi (11,5% oro, 6,2% perle e materiali preziosi), l’elettronica (6,7%), i macchinari (6,2%) e i materiali chimici (2,7%). Per quanto riguarda le esportazioni Made in Italy, esse sono capeggiate dai macchinari e dagli apparecchi elettronici e seguite dall’abbigliamento e dagli accessori in pelle. Tale ripartizione è ravvisabile anche dalla presenza di alcuni grandi gruppi italiani sul territorio indiano come: Fiat, Carraro, Maschio Gaspardo, Ansaldo Energia, Italcementi, Benetton, Gruppo Coin, ecc.
Nonostante la presenza di questi grandi gruppi, esistono una serie di accortezze che un imprenditore desideroso di affacciarsi sul mercato indiano dovrebbe, tuttavia, tenere in conto, sia sul fronte delle esportazioni sia su quello degli investimenti. Dal punto di vista delle esportazioni occorre evidenziare come esistano delle precise restrizioni alle importazioni nella Repubblica indiana. È necessario controllare di volta in volta se i prodotti esportati appartengano o meno a una delle seguenti categorie: beni ristretti (per i quali è necessaria una licenza all’importazione), beni canalizzati (che possono essere importati unicamente tramite specifiche misure o metodi di trasporto) o beni proibiti (tra i quali rientrano alcuni animali selvaggi). Dal punto di vista degli IDE bisogna tener presente che, nonostante le concessioni a cui abbiamo fatto riferimento prima, sono molti i settori in cui il governo indiano impedisce la presenza di investimenti stranieri. I nostri imprenditori non possono intervenire: 1) nel gioco d’azzardo (lotteria – anche online-, casinò, ecc.), 2) nei Chit Fund (fondi di previdenza per le emergenze tipicamente indiani), 3) nelle Nidhi companies (società di mutuo soccorso), 4) nel settore immobiliare (inclusa la costruzione di aziende agricole), 5) nella commercializzazione delle cessioni sui diritti di sviluppo (TDR, Transferable Development rights), 6) nella produzione di sigari, sigarette e tabacco, 7) nel settore dell’energia atomica e 8) nei trasporti ferroviari.
Un’ulteriore questione da valutare con attenzione quando si decide non solo di esportare ma soprattutto di destinare anche parte della produzione in India riguarda l’imposizione fiscale. L’imposta sul reddito della società è infatti del 40% ma può salire al 42% per le compagnie con un capitale superiore a 10 milioni di rupie (INR) – circa 118.000 euro – e molte altre sono le tasse reclamate dal governo indiano (per esempio, l’imposta sulle plusvalenze, circa 42% e l’imposta sulla distribuzione dei dividendi, circa16%). Evitare di essere esposti, almeno in parte, a tale pressione fiscale è possibile. Anzitutto, è utile ricordare che l’India ha fatto entrare in vigore nel 1995 la Convenzione per evitare le doppie imposizioni. In secondo luogo, esiste la possibilità per gli investitori stranieri di usufruire di importanti agevolazioni fiscali tramite la localizzazione di alcune industrie specifiche nelle cosiddette Zone Economiche Speciali (ZES). Le ZES offrono la possibilità di ridurre le tasse indirette e usufruire di deduzioni fiscali per i primi dieci anni di operatività di nuove industrie e anche l’opportunità di importare materiali per lo sviluppo privi di imposizione daziaria (fonti: Ministero del Commercio e dell’Industria e Dezan Shira & Associates).
I settori che possono rappresentare un importante punto di accesso delle imprese italiane nel mercato indiano sono, oltre a quelli già menzionati, le energie rinnovabili, il settore automobilistico e quello delle tecnologie agroalimentari. Ricordiamo inoltre che, nell’eventualità di una partnership, uno dei principali benefici del Sistema-India risiede nella reperibilità dei registri pubblici per verificare l’attendibilità del partner indiano.
Certo, non è tutto oro quello che luccica. A cominciare dalla 134° posizione nel Doing business Index per arrivare alle carenze energetiche, l’India è un Paese che affronta quotidianamente importanti difficoltà. A quelle appena citate vanno poi aggiunti gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, la corruzione (94/174 del Corruption Perceptions Index 2013), la giustizia molto lenta e i rischi. A proposito di rischi, quelli connessi all’instabilità politica sono da collocare nella fascia medio-alta secondo quanto riportato da SACE (rischio espropriazione 53/100, rischio trasferimento valutario 43/100, rischio di violenza politica 60/100) e sempre nella stessa categoria vanno inseriti anche i rischi commerciali (si va da un minimo di 40/100 per il rischio sovrano a un massimo di 54/100 di rischio bancario).
Questi ultimi dati relativi alle debolezze del Paese non devono però allontanare dalla possibilità di investire ed esportare in India poiché bisogna considerare che le difficoltà con cui si rapporta quotidianamente la Repubblica indiana sono comuni a molte economie emergenti. E se quest’ultimo punto non dovesse bastare, sarebbe il caso di ricordare che l’India è destinata a diventare, entro il 2030 e secondo le stime dell’ONU, il Paese più popolato al mondo.