Perché giovedì scorso il Financial Times ha messo in apertura di giornale la notizia del capolavoro di Sergio Marchionne e della storica conquista della Chrysler da parte della Fiat e Il Sole 24 Ore l’ha confinata in un modesto fogliettone di sole tre colonne, anche se accompagnato da un acuto commento? Spesso nella confezione dei giornali la casualità e la bizzarria imperano, ma in questo caso la notizia era ed è grande come una casa e una qualche ragione nelle differenti scelte editoriali del primo quotidiano economico d’Europa e nel primo giornale economico d’Italia ci deve pur essere. Mettiamo pure nel conto che nella realizzazione di un giornale il tempo è tiranno e può sempre giocare brutti scherzi, ma non sembra questo il caso. La scelta, a dir poco singolare, del quotidiano della Confindustria richiama invece alla mente i riflessi pavloviani, soprattutto se si pensa alla malcelata freddezza con cui il presidente degli industriali, Giorgio Squinzi, ha commentato la notizia della vittoria di Marchionne. Perfino Susanna Camusso, che non passerà di certo alla storia del sindacato come una dei più lungimiranti leader della Cgil, ha dimostrato più calore. Purtroppo Squinzi, che con la sua Mapei si è rivelato un ottimo imprenditore ma che come presidente degli industriali non ne azzecca una, non si è ancora reso conto (come successe anche ad Emma Marcegaglia) che, senza rappresentare la Fiat, che resta l’impresa simbolo e il cuore dell’industria manifatturiera italiana, la Confindustria è ormai poco più di un Rotary di provincia. Una volta l’organizzazione degli industriali faceva tremare i governi, oggi può dire quel che vuole ma non se la fila più nessuno.
Ma la svista del Sole e l’ottusità della Confindustria non sono casuali e riportano alla mente un’analisi molto brillante di Bill Emmott, pubblicata qualche mese da “La Stampa”, nella quale l’ex direttore dell’Economist raccontava di quanto nuoccia all’immagine internazionale dell’Italia il fatto che un manager tanto capace e tanto celebrato all’estero come Sergio Marchionne sia invece incompreso o addirittura vilipeso in Italia. Negli anni scorsi la sinistra sindacale e politica ma anche Forza Italia e il M5S, per non dire dei giornali che vanno per la maggiore, hanno, con rare eccezioni, fatto a gara nel prendere a pallettoni la Fiat e Marchionne, che hanno certamente compiuto i loro errori, ma che sono gli artefici di quel piccolo miracolo che ha trasformato una realtà industriale che dieci anni fa era tecnicamente fallita nel settimo gruppo automobilistico del mondo.
Il nuovo successo americano di Marchionne passerà alla storia e forse cancellerà gli abbagli che l’establishment italiano ha collezionato in questi anni sulla Fiat voltando ottusamente le spalle alla rivoluzione che il Lingotto stava costruendo. Ma una domanda si impone se ci si interroga sul futuro prossimo di Fiat-Chrysler. Ed è una domanda inquietante ma inevitabile, che si può riassumere così: l’Italia di oggi si merita una multinazionale del calibro della Fiat? Per fortuna a Palazzo Chigi gli ultimi due premier (da Mario Monti ad Enrico Letta), per non dire del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e più di recente del nuovo segretario del Pd, Matteo Renzi, hanno perfettamente capito l’importanza che la rivoluzione della Fiat ha per la stessa Italia, ma è tutto da vedere se la classe dirigente economica, politica e sindacale nel suo complesso sia in grado di fare autocritica e di rispondere ad un’altra domanda, altrettanto scomoda come la precedente e cioè: che cosa può fare oggi l’Italia per meritarsi la Fiat e per spingerla a consolidare i suoi rapporti con la sua stessa storia e con la terra in cui è nata e si è sviluppata fino a diventare la prima industria del Paese?
In un suo interessante commento sul Sole 24 ore di giovedì, Andrea Malan scriveva: per la Fiat “restano sul tavolo due questioni fondamentali: quella sulla sede, legale e fisica, del futuro gruppo e quella sulla strategia industriale, in particolare su quanti saranno e dove si dirigeranno gli investimenti indispensabili per fare fronte a una concorrenza sempre più agguerrita”. E concludeva: “Su entrambi i temi il sistema-Italia ha ancora carte da giocare, ma deve giocarle bene”. Speriamo che non sia troppo tardi.