La deindustrializzazione 2008-2013
La contrazione del PIL si è protratta per ben 6 anni, e solo nel 2013 sembra essersi arrestata. In Italia, la cosiddetta “Grande Recessione” ha significato una caduta complessiva di oltre 8 punti percentuali del PIL tra il 2007 e il 2013. Se si considera il PIL pro capite, la perdita è di 11 punti percentuali, maggiore sia rispetto a Germania e a Francia, sia rispetto alla media europea.
La produzione industriale, che negli anni del dopoguerra ha avuto un contributo fondamentale per lo sviluppo economico del Paese, si è ridotta nel 2013 di circa un quarto rispetto ai livelli pre-crisi. Una delle conseguenze principali è che la capacità produttiva risulta in eccesso rispetto alle odierne esigenze produttive dettate da una domanda molto debole, e decisamente inferiori a quelle che avevano guidato le decisioni di investimento in passato. Questo, insieme alle difficoltà di accedere al credito, ha comportato una revisione al ribasso della spesa per investimenti.
Un po’ perché si è ridotto il numero di imprese, un po’ perché le decisioni di investimento sono state ridimensionate notevolmente, la spesa per investimenti nel 2012 risultava più bassa di quasi il 23% rispetto al periodo precedente la crisi. La crisi ha segnato così un’importante discontinuità nel processo di accumulazione del capitale, in particolare per il settore industriale: le perdite nei livelli di produzione hanno portato a disinvestire, dismettere capitale, chiudere stabilimenti e imprese. Un periodo così prolungato di mancati investimenti ha effetti importanti sulla crescita potenziale dell’Italia, perché si rischia di perdere una o più ondate di innovazione, fattore cruciale per un’economia già caratterizzata da una decelerazione della produttività.
In sostanza, cala il supporto del credito bancario e della domanda interna in particolare, di quella pubblica (che taglia ordini e non paga neppure ciò che compra), restando solo il sostegno della domanda estera. I consumi si riducono soprattutto nel settore dei durevoli (auto, elettrodomestici,…), per via di un calo del reddito disponibile delle famiglie che spendono di meno e salvano di più. Le decisioni di spesa delle famiglie sono inoltre influenzate dalla drammatica situazione del mercato del lavoro. L’occupazione è tra le poche variabili che non ha ancora smesso di cadere: nel 2013 il numero di occupati è diminuito del 2.5% rispetto al 2012, risultando in ben 585 mila posti di lavoro in meno ed andando a colpire in particolare le fasce d’età più giovani.
Nell’industria, rispetto ai livelli pre-crisi, gli occupati risultano 600 mila in meno. Aumentano inoltre il numero dei dipendenti in Cassa Integrazione Guadagni, che nel primo trimestre del 2013 sono stimati essere il 4% dei lavoratori nel settore industriale. In rialzo anche le forme di lavoro precarie, come i contratti a tempo determinato e a progetto, che aumentano l’incertezza delle famiglie. Il reddito delle famiglie continua a diminuire e nel 2013 si riporta sui livelli di fine anni 80.
Quanto ciò sarà rimediato dalla prossima ripresa che, non a caso, continua ad essere accolta con incredulità? Molto dipende da quanto la “selezione darwiniana” degli ultimi 6 anni ha già fatto o deve ancora fare.
Due diligence a fine 2013
Il calo della domanda interna e il razionamento del credito (mondiale a fine 2008, dopo la scomparsa di Lehman; e solo nella periferia europea dal 2010, dopo il fallimento della Grecia) hanno provocato quella “selezione”dell’industria italiana che Paesi meglio governati (Germania di dieci anni fa !) avevano anticipato da anni.
Supponiamo di essere una “banca intelligente” che deve decidere se finanziare o no la prossima ripresa di una nostra impresa industriale. Come fa a sapere se quella azienda ha un futuro?
Tre sembrano essere i fattori principali da considerare. Il loro insieme aiuta a capire la probabilità di un’azienda, oggi ancora attiva, di avere anche un futuro.
– Il primo fattore rilevante è la dimensione. Per una serie di ragioni (cassa integrazione guadagni; reazioni politiche e sindacali; sostegno dei creditori bancari) la possibilità che un’azienda sia ancora oggi vitale, è rilevante tanto minore è la sua dimensione (in altre parole, vuol dire che il grosso dell’aggiustamento le piccole imprese l’hanno già realizzato).
– Il secondo fattore è riferito al settore di appartenenza. Come si vede dalla tabella allegata ci sono settori dove la produzione industriale ha avuto la caduta maggiore, ma è già in ripresa (tipicamente: mezzi di trasporto; gomma e plastica), ed altri che, al contrario, sono caduti poco, ma continuano la caduta (tipicamente l’alimentare).
– Il terzo fattore riguarda la dipendenza (diretta o indiretta) dalla domanda interna o dalla domanda estera. E’ quanto abbiamo già visto in questi anni e resta rilevante anche per il futuro: le imprese che si appoggiano sulla domanda estera hanno una carta in più rispetto a quelle che si rivolgono solo alla domanda interna. Nel corso degli ultimi trimestri si è osservata una tenuta della domanda estera, e le esportazioni hanno evidenziato un timido miglioramento. Vi sono però forti limiti e rischi ad affidarsi ad una ripresa trainata dalle esportazioni. Oltre ai soliti limiti della bassa produttività italiana e ai rischi legati alle possibili svalutazioni delle monete estere, come già avvenuto con lo Yen giapponese ed evidenziato da un lieve apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, ci sono altri fattori che mettono in dubbio la competitività dei prodotti italiani.
Secondo REF Ricerche uno dei principali ostacoli è costituito dalla specializzazione geografica: siamo ancora poco presenti sui mercati più dinamici, come gli emergenti asiatici. La quota di esportazioni dirette verso questi mercati è pari a poco più della metà di quella tedesca, e risulta inferiore anche a quella francese. La scarsa presenza in Asia è dovuta a diversi fattori, fra i quali la ridotta dimensione media delle imprese italiane, che rende più complessa la presenza su mercati così distanti, ma anche a una specializzazione produttiva per certi versi più simile a quella dei produttori asiatici. In prospettiva, la scarsa presenza sui mercati asiatici può rappresentare un problema, dato che questi sono previsti crescere ancora a ritmi più elevati rispetto al resto dell’economia mondiale.
Il Governo (supponendo che ci sia) poteva fare di più?
In base a quanto detto nei due precedenti paragrafi, abbiamo uno scenario probabile per il 2014 che non è molto ottimistico: ci consola sapere che la caduta sta terminando, e che il grosso dell’aggiustamento è già avvenuto.
C’è qualcosa nella politica economica già decisa che, se realizzato nei prossimi mesi, induce ad un maggior ottimismo? Il Vice Direttore Generale della Banca d’Italia Luigi Federico Signorini riporta già un suo primo parere, che si trova sintetizzato nell’Approfondimento.
Dobbiamo anzitutto ribadire (come sottolineato da Matteo Bugamelli, Banca d’Italia) che la ripresa dell’economia italiana non può prescindere dal rilancio dell’industria. L’industria rappresenta un contributo fondamentale per l’innovazione e l’export italiano. La strategia che serve si basa su due pilastri. Il primo ha come obiettivo quello di migliorare l’allocazione delle risorse attraverso riforme strutturali riguardanti gli ammortizzatori sociali e politiche attive per il lavoro, il sistema finanziario, la concorrenza e la lotta alla corruzione e illegalità.
Il secondo punta invece a ridurre i costi delle imprese, agendo sulla riduzione del cuneo fiscale e contributivo, e delle tasse e oneri di sistema che gravano sul costo dell’energia. A queste si aggiungono le riforme volte a eliminare la complessità del quadro regolamentare per le imprese, le inefficienze della Pubblica Amministrazione e della giustizia civile; l’incertezza dell’assetto normativo e la carenza dei servizi pubblici e di alcune infrastrutture.
In conclusione, più che dalla ripresa ormai avviata, la possibilità di recuperare i livelli di produzione industriale che avevamo ancora sei anni fa, dipende solo dal realizzarsi dei quell’insieme di riforme che siamo abituati a ritenere complementari: far funzionare meglio il mercato, e modernizzare e/o ridurre tutto ciò che è pubblico.