E’ Phil Mickelson il re indiscusso del 142esimo Open Championship, l’unico giocatore che, dopo 72 buche, ha consegnato uno score di 3 colpi sotto il par. A 43 anni il mancino americano conquista per la prima volta la Claret Jug, dopo 20 anni di tentativi, a 5 settimane dalla delusione per lo US Open, dove è arrivato secondo per la sesta volta. Si tratta del quinto major in carriera, per questo fuoriclasse, secondo nella money list di golf di tutti i tempi, dietro solo a Tiger Woods. “Ho avuto paura di non riuscire mai a vincere su un campo come questo – commenta al termine della gara – ma oggi ho puttato in modo fantastico. E’ stato il giro migliore della mia carriera”.
Tutti gli altri campioni invece sono stati sconfitti dal links scozzese, bruciato dal sole; Muirfield è rimasto fedele alla sua fama di inespugnabile roccaforte del golf. Solo lo svedese Henrik Stenson ha giocato in par, gli altri sono andati oltre. Grande delusione per Tiger Woods, che non è mai stato in palla in quarta giornata: impreciso nel gioco lungo, poco convincente nel gioco corto, ha strappato al campo un sesto poso, tirando un totale di 286 colpi (+2). Ottimo piazzamento per Francesco Molinari (+3), nono a pari merito con Hunter Mahan.
E’ stato uno degli Open più belli degli ultimi anni, aperto a ogni risultato fino a poche buche dalla fine. Molti sono i giocatori giocatori che, fra giovedì e domenica, hanno accarezzato l’idea di conquistare The Open: Miguel Angel Jimenez, Zac Johnson, Angel Cabrera, Stenson, Woods, Lee Westwood, Adam Scott.
Fra questi Westwood era il più credibile. A 40 anni, dopo 60 major giocati, dopo essersi trasferito dall’Inghilterra alla Florida, dopo aver ingaggiato l’allenatore di Tiger, dopo aver migliorato il gioco corto del 200 per cento, dopo aver messo a segno una media di 27 putt a giro e l’85% di salvataggi dal bunker, sembrava finalmente arrivato il suo momento. Ieri è partito per ultimo, in vantaggio di 2 colpi sui suoi diretti inseguitori e fino alla buca 7 ha tenuto testa al mondo. Poi qualcosa si è rotto. I colpi sono diventati meno precisi, il putter meno solido, la strategia meno lucida. La paura di vincere ha fatto il resto.
Mickelson invece ha giocato di contropiede. Non è mai stato in testa, domenica rischiava persino di non essere inquadrato dalle telecamere. La regia era troppo impegnata a inseguire Lee, Tiger o Adam (che ha preso l’80% dei fairway). Invece, come solo i grandi sanno fare, Lefty ha sferrato il suo attacco alla fine e, dopo uno sguardo al leaderboard, ha capito che poteva farcela. Fino alla buca 13 era in zona, da quel momento in poi ha premuto l’acceleratore: quattro birdie nelle ultime sei buche, le più difficili del percorso, un giro in 66 in una giornata ventosa, la più ostica di tutte. Ha rischiato, perché il suo è un gioco d’attacco ed è stato premiato. Ha vinto il migliore in campo, un giocatore di grande esperienza, un asso del golf, un nome che ben figura nel libro d’oro dell’Honourable insieme a Gary Player, Jack Nicklaus, Lee Trevino o Nick Faldo.
Nato a San Diego il 16 giugno del 1970, cresciuto a pane e golf, Mickelson comincia a giocare da mancino perché, piccolissimo, imita lo swing del padre come uno specchio. Ha una bella famiglia, tre figli, resta vicino alla moglie quando ha il cancro e lo supera. E’ affidabile, fedele, ha lo stesso caddie, Jim Mackay, detto Bones, dal 1992. E’ gentile coi tifosi, disponibile col pubblico, sorridente, amato. Un bravo ragazzo americano, che si lamenta solo quando si tratta di pagare troppe tasse in California.
Ormai è una leggenda del golf, capace di sfatare persino altre leggende. Si diceva che nessun giocatore potesse vincere lo Scottish Open e la settimana dopo The Open. Lefty questa volta ci è riuscito.