L’uscita dalla procedura di deficit eccessivo dell’Italia, seppure accompagnata da condizionalità, la concessione di tempi più lunghi per il riaggiustamento a paesi con difficoltà di bilancio, come Francia e Spagna, e, più in generale, il cambiamento di tono delle raccomandazioni della Commissione Europea, segnalano un’attenuazione della linea dell’austerità. Se possono essere lette come un primo cauto riconoscimento dei danni che politiche sincronizzate di austerità fiscale stanno infliggendo all’intera costruzione europea, sono tuttavia ancora ben lontane da una sconfessione della filosofia economica che ha sorretto la costruzione dell’UME. Accanto a faticosi ed estenuanti negoziati per una riforma politica e istituzionale, continua a prevalere infatti l’idea che la sostenibilità dell’euro si fondi su un riaggiustamento dei salari e dei prezzi relativi, da ottenersi attraverso riduzioni nei paesi in deficit o aumenti nei paesi in surplus, o una combinazione di entrambi.
Tuttavia, se nell’analizzare i problemi di un paese (o di un gruppo di paesi) si tiene conto delle interazioni sistemiche, risulta evidente come i disavanzi persistenti dei paesi della periferia non possano essere spiegati soltanto dagli indicatori standard di competitività di prezzo. L’analisi delle cause strutturali che stanno alla base della crisi dell’euro e dei paesi periferici non può trascurare l’esame dei cambiamenti del modello economico del paese egemone e delle circostanze che hanno accompagnato l’evoluzione strutturale dei paesi della periferia. Fra questi, in particolare: gli effetti esercitati dall’allargamento a est dell’industria tedesca sull’interscambio tedesco con il sud dell’Europa; i mutamenti del modello di specializzazione e l’impoverimento della matrice produttiva dei paesi della periferia; il mutamento della composizione qualitativa dell’interscambio tedesco, con particolare riferimento alla relazione fra importazioni e distribuzione del reddito.
Questi mutamenti hanno condotto a una crescente asimmetria degli scambi all’interno dell’euro, con un aumento del peso dell’interscambio centro-periferia a scapito degli scambi multilaterali fra paesi della stessa periferia. L’analisi di questi cambiamenti ha implicazioni importanti ai fini dell’individuazione delle politiche necessarie per innescare una crescita dell’area euro che sia sostenibile oltre il breve periodo se, come si argomenterà nel seguito, differenze nella competitività di prezzo sono solo una parte della storia, e un’espansione tedesca, sebbene necessaria, non sia sufficiente ad assicurare un aumento delle esportazioni e del reddito dei paesi del sud abbastanza grande da eliminare gli squilibri e assicurare una crescita sostenibile nel lungo periodo.
La riorganizzazione del sistema economico tedesco, condotta su due fronti – riforme del mercato del lavoro sull’interno e decentramento di fasi della produzione (offshoring) a est – ha portato a una forte segmentazione del mercato del lavoro. In Germania, l’integrazione di un mercato del lavoro interno duale (diviso fra lavoratori delle industrie esportatrici e lavoratori dei servizi, maggiormente penalizzati dalle riforme Hartz), con un terzo mercato del lavoro creato dalle operazioni di offshoring, ha contribuito a fornire beni intermedi a bassi salari e prezzi. Una crescita notevole della diseguaglianza salariale e della quota di lavoratori a bassi salari è stato accompagnato da una compressione della domanda interna per consumi e investimenti. Il mutamento nella divisione del lavoro fra le diverse aree dell’UE allargata ha comportato anche una riduzione degli effetti propulsivi esercitati dalla domanda tedesca sul reddito dei paesi della periferia sud. Infatti, se trainata dalle esportazioni, una espansione tedesca favorisce maggiormente i paesi dell’Europa centro-orientale, specializzati nella produzione di beni intermedi per l’industria tedesca, e molto meno i paesi Mediterranei (esclusa in parte l’Italia), specializzati in beni di consumo.
In questi ultimi, il grado di diversificazione della struttura produttiva è ancora troppo basso per poter beneficiare pienamente di uno sviluppo trainato esclusivamente dalla domanda estera: a differenza della Germania, che presenta un numero elevato di settori di specializzazione, i paesi periferici sono infatti caratterizzati da pochi settori di specializzazione, con indici molto alti. Più che ai costi unitari, lo sviluppo economico di un paese è dunque associato a un processo di specializzazione e diversificazione, capace di allargare e integrare la sua base produttiva. La bassa crescita dell’area euro, unita a misure suggerite da una teoria economica che interpreta la politica di sviluppo unicamente in termini di politica della concorrenza di prezzo, non ha aiutato il sud dell’Europa a diversificare la struttura produttiva, al contrario di quanto è successo invece ai paesi dell’est. Ma se la composizione delle esportazioni dell’Europa meridionale è assai diversa da quella della Germania, è dubbio che una riduzione dei prezzi relativi possa avere effetti di traino rilevanti.
C’è tuttavia un altro rischio che deriva da una esclusiva attenzione ai costi. In Germania le riforme del mercato del lavoro e del welfare e il livello compresso della domanda interna hanno determinato crescente diseguaglianza e povertà. Elevata disoccupazione e bassi redditi hanno imposto alle famiglie un cambiamento del paniere di consumo, che si è tradotto nella necessità di ricorrere a beni di consumo importati di qualità più bassa (downgrading delle importazioni). Mentre la domanda interna attiva così importazioni di beni di consumo da una base geografica molto più vasta, le misure di austerità sincronizzate a livello europeo mettono in moto nuovi effetti negativi, poiché maggiori importazioni di prodotti di qualità più bassa si traducono in una riduzione degli effetti di spillover fra i paesi europei (oltre a una riduzione dello standard di vita che viene nascosta dalla riduzione dei prezzi connessa al peggioramento della qualità) e a una nuova spirale di riduzione cumulativa dei redditi nell’eurozona.
L’elevato grado di asimmetria negli scambi (e nei saldi) all’interno della eurozona, infine, implica che, in caso di recessione, l’aggiustamento non possa che avvenire attraverso la riduzione delle importazioni dei paesi in deficit, e conseguentemente del commercio totale. Se un’espansione tedesca, sebbene necessaria, non è sufficiente ad assicurare la sostenibilità nel lungo periodo, e se un mutamento della competitività di prezzo, ottenuto attraverso una variazione dei costi unitari, non sarebbe sufficiente per raggiungere il riequilibrio dei conti all’interno dell’eurozona, l’alternativa è una intensificazione degli scambi fra i paesi in deficit, la sola capace di ottenere un riequilibrio dei flussi commerciali senza dover ricorrere a una compressione della domanda. Ma l’esperienza di questo primo decennio ci ha mostrato che il meccanismo di mercato da solo non è in grado di assicurare il processo di diversificazione necessario per la ripresa di una crescita sostenibile nel lungo periodo.
Per questo serve una politica “fiscale” capace di favorire—attraverso gli investimenti— la rimozione delle strozzature allo sviluppo e il rinnovo della base produttiva necessaria a ridurre le differenze nello sviluppo. A questo scopo, sono necessarie politiche industriali e commerciali a supporto della sostituzione delle importazioni, dell’up-grading e dell’espansione delle esportazioni, nonché la ricerca di aree di complementarietà nelle strutture produttive dei paesi dell’Europa meridionale capaci di assicurare un riequilibrio degli scambi commerciali. L’acquisizione di un maggiore grado di multilateralità del commercio estero dei paesi della periferia europea potrebbe essere ottenuta anche promuovendo le relazioni con paesi non appartenenti all’Unione Europea e, fra questi, in particolare, con i paesi del bacino del Mediterraneo.