Lo sapevate che Icq, primo sito di instant messaging e precursore di Facebook, fosse israeliano? O che il primo prototipo di chiavetta Usb, la San Disk, fosse anche lei stata inventata in Israele, così come, per esempio, Indigo, la prima stampante digitale poi acquistata dal colosso Hewlett Packard, o ancora Netafim, primo sistema di irrigazione automatico?
È proprio lì, nell’indefinibile confine tra Europa e Asia, che sorge la nuova Silicon Valley, anche se come tiene a precisare lo stesso professor Manuel Trajtenberg, capo del sistema formativo israeliano e ospite all’Ambrosetti Technology Forum di Castelbrando, in Veneto, “noi non seguiamo nessun modello, proponiamo il nostro”. Un modello più che vincente, il primo al mondo per percentuale di Pil investita in innovazione (il 4,3%, davanti al 3,8% della Finlandia e al 2% della media Ue-27) che ha portato negli ultimi anni ben 60 compagnie high-tech con la stella di David a quotarsi al Nasdaq di New York, facendo di Israele il primo Paese al mondo – oltre agli Usa – rappresentato nel listino più importante del mercato tecnologico.
Quali sono gli ingredienti di quello che il prof. Trajtenberg, pur rigettando i paragoni, definisce un “Silicon Miracle”? Si parte, come sempre dalla base, ovvero dalla ricerca e dalle università: quinto Paese al mondo nel rapporto brevetti/popolazione (72 ogni mille abitanti nel 2010, il Giappone 118, l’Italia 12), in Israele la maggior parte dei brevetti arriva proprio dal mondo della ricerca scientifica, in quanto grazie agli ingenti fondi destinati il Paese primeggia nella collaborazione tra università e industria nella R&S.
Certo, però, non bastano le idee e la competenza: ci vuole lo spirito imprenditoriale, l’attitudine al rischio che il Trajtenberg definisce “can do it attitude”. Si può fare, ma non si deve fare per forza di fretta: bandito il “tutto e subito”, la strategia del modello israeliano si basa su una visione lungimirante e sulla pazienza, oltre che su un knowledge che permetta di lavorare tranquillamente. E oltre che, ovviamente, sui fondi: se all’inizio ci pensa lo Stato, poi ci vuole una buona dose di venture capitalism. Nel 2010, secondo i dati ufficiali Evca Yearbook, in Israele quasi lo 0,25% del Pil è stato destinato da venture capital a startup innovative. Cifra irrisoria? In Italia rasenta lo 0%, in tutti i Paesi del mondo è al di sotto dello 0,1 e gli stessi Usa fanno meno dello 0,2%.
A monte, come detto, c’è il sistema pubblico, il più coinvolto del pianeta nel sostenere anche individualmente i creativi: il budget per supportare le iniziative dei 24 incubatori tecnologici è tra i 400 e i 700mila dollari ciascuno per 2 anni, di cui l’85% sotto forma di premio in caso di successo. Il supporto annuo per i progetti R&S avvicina i 400 milioni di dollari, il che equivale a oltre mille progetti finanziati ogni anno (1018 nel 2011, 1233 nel 2009).
La spinta data all’hi-tech produce un risultato finale che si può sintetizzare in due dati: il primo è che questo tipo di business cresce ben 5 volte più velocemente del resto dell’economia israeliana, che però a quanto pare ne beneficia tutta. Immaginate un posto, lontanissimo geograficamente da Silicon Valley, dove in controtendenza con la vicina Europa sono ancora di più le aziende che nascono rispetto a quelle che chiudono. Soprattutto quelle innovative: nel 2012, l’anno peggiore della crisi finora censito, solo in 140 hanno dovuto chiudere i battenti, mentre altre 350 sono state fondate. Dal 2007 a oggi, in tutto ne sono state create ben 3.670.