Meno tasse su imprese e lavoro, si sa, è la via per la crescita. Ridurre i carichi fiscali sul capitale e tagliare il cuneo aumenta la competitività del sistema imprenditoriale, salvaguardando i livelli salariali e consentendo agli imprenditori di espandere l’attività.
Tutta teoria? Niente affatto: anche in tempi di crisi, quando i conti pubblici non permettono di ridurre drasticamente le tasse sui fattori della produzione, non mancano casi isolati di successo. Una rondine, certo, non fa primavera, ma rende l’idea di quanto la politica fiscale sia oggi cruciale – nonchè l’unica leva dello sviluppo – per far crescere l’economia e aumentare il tasso di occupazione.
Soprattutto nel Meridione, l’emergenza lavoro fa sì che ogni buona nuova accenda un filo di speranza, e non sembra un mero esercizio retorico raccontare due piccoli casi di successo che indicano quanto “tenere la rotta” e amministrare oculatamente la fiscalità pubblica permetta di rilanciare strutturalmente l’economia.
Oggi è il caso del pastificio campano di Giuseppe Di Martino, che grazie ad agevolazioni regionali per circa tre milioni di euro – a fronte di un investimento di oltre sette milioni – accrescerà la propria capacità produttiva di mille quintali di pasta al giorno, permettendo l’assunzione di quindici lavoratori.
Pochi mesi fa il caso, più controverso, dell’Almaviva, azienda del ramo ICT, ha occupato notiziari e pagine dei quotidiani, poichè l’azienda prendeva la decisione di trasferire 632 posti di lavoro in Calabria (licenziando a Roma), dove sono presenti incentivi e sgravi (L. 407/90, legge 488/92), ma anche fondi messi a disposizione dagli enti locali. Agevolazioni che nel Lazio sono state cancellate per arginare la disastrosa gestione dei conti pubblici, affossati da una sanità che accumula deficit annuali misurabili in termini di centinaia di milioni di euro.
Una mossa, quella dell’Almaviva, sicuramente a “saldo zero” per l’economia nel suo complesso, ma che ha un minimo comune denominatore con il caso del pastificio campano: l’attrattività degli investimenti e la creazione stabile di occupazione sul territorio non possono prescindere, ma soprattutto dipendono, da una politica fiscale che renda meno costoso e meno rischioso l’investimento in capitale fisico.
I due casi isolati la dicono lunga su quanto le finanze regionali – e quindi un vero federalismo fiscale – possono garantire una crescita stabile dell’economia prescindendo dall’indebitamento. I vincoli europei dettati dal Fiscal compact rendono improrogabile il perseguimento di una ferrea gestione delle finanze, dunque la politica fiscale rappresenta – in assenza di un vero piano continentale per lo sviluppo – l’unica leva per far crescere il Pil.
Nell’economia globale competere vuol dire sopravvivere, e per far sì che un’impresa possa affrontare la sfida mondiale occorre che a livello nazionale, ma soprattutto regionale, la competizione su base fiscale riesca a “convincere” gli imprenditori nazionali e quelli stranieri ad investire sul territorio.
Le imprese italiane, da questo punto di vista, scontano un’imposizione “totale” pari al 68%, venti punti di tasse in più rispetto ai competitor tedeschi. Se, quindi, ridurre la spesa pubblica per tagliare le tasse, oltre a completare il federalismo fiscale, indica la via obbligata per uscire dalla crisi, forse bisognerebbe che nel corso della campagna elettorale se ne parlasse di più, e con meno slogan.