Dieci senza l’Avvocato. Il 24 gennaio prossimo ricorre il decimo anniversario della scomparsa di Gianni Agnelli, stremato da un cancro alla prostata che lui stesso nell’aprile dell’anno prima, mascherando l’inizio del dramma, aveva definito un semplice impiccio dell’età. Se ne andava dalla vita mentre la Fiat viveva la peggiore crisi della sua storia con l’auto indebitata sette volte i mezzi propri, il gruppo alla mercé delle banche del prestito convertendo da 3 miliardi, un avvicendarsi di amministratori delegati ormai impotenti a debellare la voragine di perdite. Impallidiva la visione che l’Avvocato stesso, soltanto quattro anni prima alle celebrazioni del centenario della nascita di Fiat, aveva dato del Lingotto, un grande gruppo di uomini e competenze capace di affermare il made in Italy nel mondo anche nel secolo che stava per aprirsi.
Gli ultimi mesi dell’Avvocato devono essere stati per lui i più amari. Sentiva venir meno la vita, ma soprattutto avvertiva che rischiava di venir meno un impero: l’accordo con Gm si stava già rivelando un fallimento; il vertice di Fiat obbligato ad andare ad Arcore, trasformata per l’occasione in un’avvilente Canossa, a chiedere aiuto al Governo; Berlusconi, allora premier, che diceva che se avesse avuto lui un po’ più di tempo, la Fiat l’avrebbe rimessa in sesto in men di un anno. Ma il disastro della Fiat non arrivò mai a scalfire la figura di Agnelli.
Prova ne fu che la sua morte suscitò manifestazioni di cordoglio tali da ricordare quelle suscitate dal dramma di Lady Diana o John Kennedy: decine di migliaia di persone a rendergli omaggio nella sua Torino, venti e più pagine per diversi giorni nei quotidiani a scrivere di lui, edizione straordinarie dei media, dibattiti in tv. In Italia a memoria qualcosa di simile era accaduto solo alla scomparsa di Fausto Coppi. Eppure – fa notare nel suo saggio su “Gianni Agnelli visto da vicino” Piero Ottone, che conosceva bene e frequentava l’Avvocato fino a diventarne amico – la popolarità di Agnelli non era dovuta a particolari imprese: non ha vinto guerre, non ha fondato industrie, non ha battuto primati sportivi. Il destino fece di lui l’erede della dinastia industriale più potente d’Italia e per decenni, grazie a un carisma innato, fu una sorta di indiscusso sovrano, amico dei più potenti personaggi del pianeta. David Weill, il banchiere di Lazard, ne ammirava la facilità di imporre in un attimo all’interlocutore il suo modo di guardare il mondo. Portato a osservare quel che succedeva piuttosto che a incidere sugli eventi, l’Avvocato non fu il capitano d’industria che era stato il nonno, il senatore Agnelli che fondò la Fiat, ma fu unico per intuizione e capacità di sintesi e semplificazione, animato da una curiosità infinita e da una noia esistenziale che non lo faceva fermare in un posto più dello stretto necessario.
Aveva 22 anni, quando il nonno lo chiamò in azienda (era il 1943), nominandolo vicepresidente. Da poco laureato in legge – ma il nonno lo chiamò fin da subito “l’avvocato” – Gianni aveva alle spalle una partecipazione alla campagna di Russia. Solo a fine del ’46, con l’accordo sui consigli di fabbrica, la Fiat fu ridata agli azionisti. In quell’anno moriva il nonno, e tutti guardarono a Gianni come al nuovo capo. Ma l’Avvocato non se la sentì. Ricordò le parole del patriarca: “Bisogna divertirsi e togliersi tutto dalla testa, prima di cominciare a lavorare seriamente”. Gianni obbedì alla lettera, e alla richiesta di Vittorio Valletta, braccio destro del nonno (“I casi sono due: il presidente o lo fa lei, o lo faccio io”), rispose: “Professore, lo faccia lei”. E per vent’anni gli lasciò pieni poteri a Corso Marconi, frequentando più il jet set che l’azienda.
Solo nell’aprile ’66 Agnelli assunse la presidenza operativa della Fiat. “Le passo la soma delle responsabilità” gli disse Valletta, che qualche giorno prima aveva firmato a Mosca lo storico accordo di Togliattigrad. La Fiat comprò per una lira la disastrata Lancia di Pesenti, rilevò Magneti Marelli, tentò l’avvio di un’alleanza con Citroen, aprendo nuovi orizzonti di internazionalizzazione. Ma il boom era alle spalle. L’Italia viveva la stagione dei primi Governi di centrosinistra. All’apice del miracolo economico, di cui la Seicento fu l’emblema, tre auto su quattro in Italia erano Fiat. Torino aveva conosciuto un’imponente e continua immigrazione dal Sud. La Fiat di Valletta garantiva un salario e la colonia estiva, ma l’ex capitale sabauda si trovò assediata da una disordinata periferia dormitorio, che coabitava con fabbriche e ciminiere. La Fiat nel ’66 produceva 1,7 milioni di auto, ma nei suoi equilibri di potere e negli assetti organizzativi era rimasta quella di 15 anni prima, quando ne fabbricava solo 50 mila.
Valletta era stato un accentratore. Agnelli giocò la carta del modernizzatore, che l’età e le conoscenze cosmopolite gli consentivano. Da anni si faceva consigliare Enrico Cuccia, che è stato per mezzo secolo il guardiano del capitalismo italiano. Il banchiere di Mediobanca trovò in Agnelli la migliore realizzazione della sua dottrina sul capitalismo familiare e del salotto buono della finanza, quello delle partecipazioni incrociate e del comandare senza troppo spendere. L’Avvocato fu sempre ligio ad assecondare i progetti del Grande Vecchio, almeno fino al fallimento di Supergemina, nel 1995. L’autunno caldo del 1969 rovesciò il pendolo delle relazioni industriali a favore del sindacato, e per Agnelli e la Fiat la strada fu subito in salita. Crollarono i consumi e il Paese si scoprì povero di infrastrutture. Agnelli si convinse a scendere in lizza per la Confindustria.
Voleva sbarrare la strada alle ambizioni di Eugenio Cefis e cercare un dialogo con i sindacati, guidati dalla Cgil di Luciano Lama, per disinnescare la spirale di scioperi e di conflittualità che stava paralizzando le fabbriche. Nel maggio ’74 Agnelli vinceva la corsa per la presidenza di Confindustria. L’anno dopo siglò l’intesa per il punto unico di contingenza. Malgrado le buone intenzioni e una presidenza di altissimo profilo, l’intesa non produsse però la pace sociale, ed ebbe effetti devastanti sull’inflazione. Al ritorno a Torino, dopo due anni di presidenza all’Eur, Agnelli trovò “la città in condizioni molto critiche: i piazzali erano pieni di automobili invendute; il clima all’interno delle aziende era di totale disordine e per la prima volta nella storia della Fiat dovemmo ricorrere al credito bancario”.
L’Avvocato si convinse ad accelerare la separazione del ruolo dell’azionista da quello della gestione. Provò con Carlo De Benedetti, ma furono cento giorni tumultuosi. Andò meglio con Cesare Romiti, il nuovo timoniere consigliato da Cuccia. La Fiat trovata da Romiti era una società che faceva fatica a pagare gli stipendi a fine mese. Dopo aver lanciato per prima l’automobile a due volumi (la 127) e il monovolume “ante litteram” (la 600 multipla), la Fiat, a corto di investimenti, si lasciò superare dai concorrenti nell’evoluzione dei nuovi modelli. La cura Romiti fu durissima: tagli, cassa integrazione e reperimento di nuovi mezzi, che furono i petrodollari della Lybian Bank. Gli anni successivi furono di aspre lotte ma a un certo punto la città reagì; e nell’ottobre 1980 venne la marcia dei 40 mila.
Il decennio 1980-90 fu quello della riscossa. Dalle fabbriche erano usciti contestazione e assenteismo e stavano entrando i primi robot. Emblematici due eventi: il successo della Uno, presentata nel gennaio 1983 a Orlando, in Florida, e l’en plein della ricapitalizzazione da mille miliardi, sotto la regia di Mediobanca. Gli Agnelli avviarono la stagione degli acquisti: tornarono nel “Corriere”, in Toro, Rinascente e Snia. Conquistarono Galbani e Alfa Romeo. Ed erano a un passo dal realizzare la joint mondiale con Ford. “Fallì perché nessuno dei due partner voleva rinunciare al comando”, fu la spiegazione ufficiale di Agnelli. Nel 1987 venne creata la cassaforte di famiglia, la Giovanni Agnelli & C. In Borsa il titolo Fiat toccò i massimi storici e i libici, attratti da una gigantesca plusvalenza, decisero di lasciare Torino. La partnership con la Libia aveva provocato l’ostracismo delle commesse del Pentagono. Ma lui, l’Avvocato, in America è sempre rimasto l’italiano più famoso e richiesto, amico di banchieri come David Rockefeller e di politici come Henry Kissinger a cui Agnelli trasmise la passione per il calcio fino a farlo diventare tifoso della Juventus.
Ricordò più volte Agnelli nei suoi excursus storici: “Proprio nel 1989 la Fiat conseguì utili eccezionali. Mi pare fossimo la cinquantesima azienda al mondo in termini di fatturato e la quinta o la sesta in termini di utili. Imparai che, se è certamente gradevole avere grandi utili, ciò è quanto di più diseducativo esista per un’azienda, in quanto si affievolisce l’attenzione alla qualità, alle economie, alla produzione di nuovi modelli”. Un’affermazione che rivelava anche una sorta di mea culpa per quel che in quella stagione proprio all’apice dei profitti.
Successe che Romiti si diede a smontare la struttura manageriale vincente che lui stesso aveva creato licenziando per primo Ghidella con l’accusa di essere troppo autocentrico. Per una società che fa auto era l’accusa più ridicola. Altre erano le ragioni, legate a una sordida lotta di potere che in quegli anni si era scatenata alla corte dell’Avvocato. “Quello che ho sempre fatto fatica a capire – scrive nel suo saggio “Fiat, i segreti di un’epoca”, Giorgio Garuzzo, l’ex direttore generale di Fiat, un altro big silurato da Romiti – come il top management, invece di concentrarsi sul prodotto e sul core business di un gruppo tanto importante con 240mila addetti, tendesse a disperdersi in mille altri rivoli più interessato a mantenere rapporti con il potere politico o a tessere iniziative tutto sommato marginali”. E Garuzzo cita l’esempio di Supergemina come coacervo di tutte le cose che non erano andate a buon fine nell’industria nazionale, senza un disegno strategico. Ne ha sofferto terribilmente anche l’auto, che entrò nel tunnel di una crisi pesantissima anche perché con l’arrivo della tecnologia i costi di produzione delle piccole e medie cilindrate – il mercato del gruppo Fiat – si stavano avvicinando a quelli delle auto di grandi cilindrate senza averne però i ricavi.
La festa è finita, sentenziò l’Avvocato all’assemblea del 1990. Iniziava una crisi che avrebbe avvelenato il clima di Torino aprendo le prime crepe tra l’Avvocato da una parte e Romiti e Cuccia dall’altra. In nome delle ragioni finanziarie a danno di quelle dinastiche Cuccia e Romiti silurarono anche Umberto Agnelli, il fratello che l’Avvocato aveva designato a succedergli alla presidenza quando lui sarebbe uscito per raggiunti limiti di età. Era il prezzo che la famiglia doveva pagare in cambio dell’appoggio finanziario di Mediobanca sotto forma di un aumento di capitale di 5 mila miliardi di lire. Gianni Agnelli ufficialmente appoggiò sempre le iniziative di Romiti. Ma si capì giorno dopo giorno che Romiti non sarebbe rimasto in Fiat un’ora in più allo scoccare del 75esimo anno di età. Tra il Dottore e la dinastia ci sarebbe stato il gelo. Tanto più che oltre al sacrificio di Umberto Agnelli Mediobanca aveva deciso di congegnare un nuovo patto di sindacato in cui gli Agnelli non avevano più la maggioranza assoluta. Il flop di Supergemina ruppe di fatto lo storico sodalizio tra Agnelli e Mediobanca.
Grazie alla prima Punto e agli incentivi pubblici per la rottamazione la Fiat stava risalendo la china mentre si avvicinava una scadenza epocale per il gruppo. “Sono alla fine del mio consolato. L’anno prossimo compirò 75 anni, e non c’è nessuna società al mondo in cui le cariche operative si mantengano oltre questa età. Si dimettono i cardinali nel conclave, figuriamoci il presidente della Fiat”. Era l’11 dicembre ’95: Agnelli annunciava il suo ritiro che avvenne alla fine del febbraio successivo. Erano tempi di bilanci: pur gonfiati da un’inflazione per anni a due cifre e dalle svalutazioni della lira oltre che da un più ampio perimetro di attività, non erano niente male. In 30 anni il fatturato era passato, in termini assoluti, da mille a 75 mila miliardi di lire, i dipendenti da 135 mila a circa 240 mila, la capitalizzazione di Borsa da 650 miliardi di lire a oltre 22 mila. “In questi 30 anni fare industria e in particolare auto – disse Agnelli nel commiato – non è stato facile per nessuno. Basti pensare che a metà degli anni 70 operavano in Europa quasi 40 case, e che oggi sono rimaste solo sette, più le tre americane”. Da Saint Moritz, nel D-Day di Torino, la moglie Marella confidò: “Ma chi lo muove Gianni dalla Fiat?”. Aveva perfettamente ragione. “Non faccio un passo indietro, ma solo di lato” scherzò l’Avvocato che restava il monarca di sempre anche senza corona.
Le manifestazioni del centenario Fiat, nel luglio ’99, e il successivo accordo con Gm – 13 marzo 2000 – furono per lui occasioni di grandi amarcord. Ricordò il momento più bello (“dopo le elezioni del ’48, quando ci fu la sensazione di poter ricominciare a lavorare seriamente”) e quello più brutto (“gli anni del terrorismo, quando ci uccisero e sequestrarono dirigenti, e ammazzarono il vicedirettore de “La Stampa”, Carlo Casalegno”). Ma altri giorni più dolorosi attendevano l’Avvocato. Quando l’uomo più potente e invidiato d’Italia si trovò solo, sotto il peso del dolore e degli anni, a riconoscere il corpo del figlio Edoardo, senza vita sul greto di un fiume, dopo un tragico volo da un viadotto dell’autostrada. Le poche immagini del funerale privato a Villar Perosa, con il vecchio patriarca al braccio del nipote John Elkann, fecero il giro del mondo. Ma all’indomani l’Avvocato era nel suo ufficio al Lingotto, come suo nonno quando perse il figlio Edoardo, come suo fratello Umberto dopo la tragedia di Giovannino. Doveva incontrare un giornalista del “Financial Times”: l’ennesima intervista per ribadire che “l’auto non si vende”, che quella con Gm è un’alleanza alla pari. Ma i conti della Fiat stavano di nuovo precipitando fino a rischiare il default.
L’Avvocato moriva lasciando l’azienda nelle mani del fratello Umberto, realizzando sul letto di morte quella successione che era saltata dieci anni prima. Un’epoca si chiudeva per sempre. Umberto fece del suo meglio per tamponare lo sfacelo, mettendo mani al portafoglio di famiglia. Ma la sua azione non durò che 15 mesi, aggredito da un male incurabile. La Fiat venne affidata a Luca Cordero di Montezemolo, espressione della famiglia, e a Sergio Marchionne, un manager che Umberto Agnelli apprezzava per averlo ben conosciuto quando l’Ifil entrò nel capitale della svizzera Sgs. John Philip Elkann, il nipote prediletto dell’Avvocato, maggiore azionista nell’accomandita con oltre il 30% posseduto tramite la Dicembre, accelerava il cursus honoris verso la presidenza. Ma l’uomo forte si è rivelato subito Marchionne: favorito anche dal fatto di essere sciolto da qualsiasi legame con il passato, cominciò una ristrutturazione che portò all’eliminazione di dirigenti e della stessa struttura della holding ormai inutile essendo la Fiat concentrata solo su auto, camion e trattori. Una cura da cavallo che in meno di quanto si pensasse riportò la Fiat in utile anche grazie a operazioni straordinarie in cui Marchionne si è mostrato geniale: dallo scioglimento dell’intesa con Gm allo spin-off dell’auto dall’Iveco e Cnh, dall’uscita da Confindustria per aver meno vincoli nelle trattativa sindacali fino all’operazione Chrysler, che rilanciava alla grande la Fiat tra i top player dell’auto mondiale. Anche Elkann ha fatto cose importanti come l’accorciamento della catena di controllo, fondendo tra loro Exor, Ifi e Ifil, che il celebre nonno si era auspicato senza mai riuscire a realizzarlo. Con Marchionne è sbarcato alla grande in America, frontiera agognata ma mai raggiunta da Agnelli. Scenari che pochi avrebbero immaginato nei drammatici giorni dell’addio ad Agnelli.
Ma il ruolo avuto da Agnelli in Fiat e nel Paese nessuno è stato più in grado di ricoprirlo. Sarà un retaggio feudale dell’Italia abituata al capitalismo familiare di Cuccia – come ha scritto Alain Friedman nel suo “Tutto in famiglia” – ma l’Avvocato ha lasciato un vuoto senza eredi. Con lui ancora in vita sarebbe inimmaginabile l’attacco contro la Fiat e alla dinastia che ha portato di recente Diego Della Valle, accusando Marchionne di ritardare il rinnovo dei modelli in Italia puntando tutto sull’America. Accuse che il manager dal pullover girocollo ha rispedito al mittente chiamandolo “scarparo”. Ma l’operazione Chrysler se rafforza l’immagine vincente di Marchionne potrebbe infrangere i tre dogmi su cui poggiava la Fiat dell’’Avvocato intrecciando insieme e accomunando i destini dell’azienda con quelli della famiglia e di Torino. La strategia di Marchionne – che sfida i sindacati avvertendo tutti che in Italia il Lingotto tornerà a investire solo quando si risolleverà il mercato precipitato ai livelli del 1979 – sta di fatto spostando il secolare baricentro torinese. Non solo: la sempre più probabile fusione del Lingotto con la Chrysler porterà a un inevitabile ridimensionamento della quota di controllo della famiglia. Con la capitalizzazione attuale della Fiat auto, meno della metà di quanto era stata valutata al momento dell’intesa con Gm, sarà difficile agli eredi di Agnelli mantenere la quota del 30% a meno di ricorrere, come avvenne al momento della scadenza del prestito convertendo, a un complesso e sempre più difficile gioco di ingegneria finanziaria con il dejà-vu di manovre che talvolta dimenticano gli azionisti di minoranza.