Lo hanno chiamato “spread sociale”. I valori raggiunti in molte parti d’Europa dalla disoccupazione giovanile consentono di definirlo come un “labor cliff”. Per accorgersene basta mettere su un grafico i dati Eurostat. Su cento giovani sotto i venticinque anni disposti a lavorare, a novembre 2012 quelli disoccupati sono saliti a cinquantasette in Spagna, a trentasette in Italia e a ventisette in Francia. A novembre del 2011 i tassi giovanili di disoccupazione si fermavano al quarantanove per cento in Spagna, al trentadue in Italia e al ventitre per cento in Francia. E’ questa brusca impennata che descrive il “cliff”, il dirupo scosceso in cui è scivolato il mercato del lavoro in tre dei quattro maggiori paesi dell’Eurozona. Accade in Spagna, in Italia e in Francia. Non succede in Germania, dove il tasso di disoccupazione degli under-25 rimane invece saldamente attestato intorno all’otto per cento, lo stesso invidiabile livello di cui l’economia tedesca godeva già una decina di anni fa. Tassi inferiori al dieci per cento sono oggi registrati anche nei Paesi Bassi e in Austria. C’è un “labor cliff” rappresentato dal marcato peggioramento delle condizioni occupazionali, specie giovanili, dei grandi paesi mediterranei che si combina ad uno “spread sociale”, un divario di lavoro che si allarga tra noi e le economie dell’Europa centro-settentrionale partecipanti all’Unione monetaria.
Risalire dalla scarpata del “labor-cliff” e ridurre lo spread della disoccupazione giovanile è difficile. In un’area valutaria comune squilibri occupazionali e generazionali di simili dimensioni dovrebbero essere aggiustati con il contributo decisivo di una politica fiscale comune capace di riequilibrare i conti tra regioni e generazioni. Purtroppo, a dispetto dei dettami teorici che valsero a Bob Mundell il premio Nobel per l’economia nell’anno 1999, questa comune politica fiscale oggi ancora non esiste nell’Europa della moneta unica. Non solo. A fronte di una situazione di crisi che si protrae nel tempo emerge anche il grado diverso di libertà nel tipo di risposte agibili da parte delle imprese e dei lavoratori. La mobilità del capitale permette alle imprese competitive di intraprendere o consolidare percorsi di internazionalizzazione al di fuori dei confini delle nazioni d’origine. Assai più limitata, invece, rimane ancora la mobilità del lavoro. Nell’area dell’euro non esiste un mercato comune del lavoro come quello che interconnette i cinquanta componenti degli Stati Uniti d’America. Nondimeno, la pressione delle difficoltà accelera i tempi del cambiamento. Un dato Istat diffuso recentemente indica come siano stati circa undicimila i laureati italiani che sono emigrati all’estero nel corso del 2011. Esattamente il triplo di quanti erano nel 2002. Sono ancora numeri piccoli, ma sufficienti a rappresentare la direzione di un doloroso percorso di aggiustamento. Il percorso, nuovo quanto antico, dell’emigrazione.
In altre epoche storiche l’emigrazione dei giovani ha rappresentato una risposta quasi ineluttabile alla durezza di una crisi. Si usciva, però, da delle guerre. I giovani non incorporavano quel capitale umano, quel investimento in istruzione di cui le attuali giovani generazioni sono oggi dotate, anche in Italia. Oggi i giovani sono una risorsa scarsa, una risorsa strategica per la competitività e per lo sviluppo. Pensiamo al digital divide, alla capacità dei giovani di lavorare con le nuove tecnologie ICT, con il web e con le nuove proiezioni dell’internazionalizzazione. Pensiamo all’importanza dei giovani per settori come quello bancario, che alle capacità delle nuove generazioni di accedere a un’occupazione sostenibile lega indissolubilmente le prospettive di raccolta del risparmio nel medio periodo. I giovani di oggi non hanno conosciuto le spirali inflattive e stagflattive degli anni Settanta e Ottanta, le crisi e il tipo di instabilità del mondo che c’era in Europa prima dell’arrivo dell’euro. I giovani di oggi non conoscono tanto i vantaggi della moneta unica quanto i costi gravi della lunga recessione e della loro disoccupazione. Occorre risalire la china del “labor cliff”. Lavorare alla riduzione della disoccupazione giovanile per recuperare competitività, riannodare la coesione tra le generazioni e formare la coscienza europeista del domani.