Energia fa rima con economia. Accade da almeno 800mila anni, da quando l’”homo erectus” scopri il fuoco e aprì la via alla capacità di trasformare economicamente l’ecosistema per trarre da esso occasioni e risorse utili alla crescita. Oggi, oltre che all’economia, la questione dell’energia attiene ad una pluralità di altre variabili, che vanno dalla finanza alla scienza alla geopolitica e all’etica. Seppur con lentezza e tra molte contraddizioni, si consolida una consapevolezza globale circa il fondamentale obiettivo di rendere l’utilizzo dell’energia compatibile con la salvaguardia di un ecosistema planetario sempre più sofferente e instabile. E’ la complessa questione del riscaldamento globale, dell’effetto serra e di un percorso strategico di contenimento e di riduzione delle forme nocive di utilizzo dell’energia e della sostituzione dei combustibili fossili con energie rinnovabili. In questo grande quadro di riferimento di lungo-termine si iscrivono dinamiche di più breve periodo che risultano molto articolate e interessanti. Colpisce il fatto che il tema di una sostenibilità energetica globale tenda oggi ad essere declinato anche (se non prevalentemente) nella ricerca di una riduzione del grado di dipendenza energetica di un singolo paese dal resto del Mondo. Accade soprattutto negli Stati Uniti.
“Freeing ourselves from foreign oil” . “Liberarci dal petrolio straniero”. È quanto è tornato ad affermare con autorevolezza il Presidente Obama, nel discorso di accettazione della sua rielezione tenuto a Chicago nelle prime ore della mattina dello scorso sette novembre. Il cammino verso l’autosufficienza energetica rappresenta una priorità della politica americana. Non è un progetto a medio termine, bensì un dato di fatto già oggi rilevante per gli USA, e per tutto il resto del Mondo. Una “novità” geopolitica che ha un nome preciso, che chiunque si occupi in questi tempi di energia ha imparato a conoscere. E’ lo “shale gas”, il gas estratto dagli scisti, la risorsa nuova che sta rapidamente contribuendo alla riduzione della dipendenza energetica degli Stati Uniti e sta fortemente incidendo sugli andamenti mondiali dei prezzi di uno tra i più importanti combustibili esistenti. Per effetto dello shock dello “shale gas”, oltre che per il protrarsi della difficile congiuntura economica globale, il prezzo “spot” del gas naturale sul mercato americano è oggi pari alla metà di quello rilevato cinque anni fa. Esattamente, 3,6 dollari per mmBTU oggi contro 7,3 dollari nel novembre 2007. Per memoria, negli ultimi cinque anni il prezzo del barile di greggio Brent è salito da 90 a 110 dollari.
Lo “shale gas” è un particolare tipo di gas che impregna alcune rocce scistose ovvero rocce che hanno la caratteristica di sfaldarsi secondo piani paralleli. Da più di dieci anni gli americani sono pionieri nella estrazione di “shale gas” . Già nel 2010, grazie al contributo del gas da scisti, gli USA hanno superato la Russia con primo produttore mondiale di gas naturale. L’Agenzia federale americana per l’energia prevede che nel 2015 – quindi, tra solo tre anni – la quota dello “shale” sul totale delle disponibilità di gas naturale negli USA raggiungerà il 38% contro il 3% di dieci anni prima. La quota di import di gas scenderà al 18% entro il 2015. Ulteriori riduzioni della dipendenza dall’import interverranno negli anni successivi. Le riserve americane di “shale gas” ammontano a 187mila miliardi di metri cubi pari a 120 anni di consumi. Parallelamente allo “shale gas”, gli americani spingono anche su altri combustibili “non convenzionali” quali il cosiddetto “tight oil”, il greggio ricavato da rocce poste a grande profondità. Come per lo “shale gas”, il “tight oil” contribuisce a ridurre la dipendenza energetica degli USA. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) entro il 2020 gli USA supereranno l’Arabia Saudita come primo produttore mondiale di petrolio. Il 2020 è domani.
Quella del gas da scisti e del “tight oil” è una lezione importante anche per noi italiani. Alla ricerca della sostenibilità energetica grandi paesi come gli USA associano, e forse antepongono, il consolidamento di una minore dipendenza dalle importazioni di energia dall’estero. L’Italia importa oltre l’ottanta per cento dell’energia che consuma, essendo tra i paesi dell’OCSE quello con la più alta dipendenza dall’estero. Non solo. Con un’incidenza sul PIL e sulle esportazioni mondiali dell’ordine del tre per cento, l’Italia è titolare di oltre l’otto per cento dell’import internazionale di gas naturale. Ancor più, l’Italia pesa per il diciotto per cento del totale internazionale delle importazioni nette di energia elettrica calcolato dalla IEA: ben sei volte la quota del nostro paese sul prodotto del Mondo. La nostra dipendenza energetica dall’estero è consistente e andrebbe corretta, per essere meno vulnerabili rispetto a situazioni di crisi di singoli paesi fornitori e anche per cercare di ridurre il significativo divario di costo che penalizza i consumi energetici delle imprese italiane e la loro competitività.
La formazione di un consistente deficit energetico rappresenta un tratto strutturale dei nostri conti con l’estero. Nei primi nove mesi di quest’anno, sui conti della bilancia commerciale, il disavanzo dell’energia è ammontato a 49 miliardi di euro. Ragionevoli stime consentono di attestare una previsione del deficit energetico dell’anno in corso si intorno ai quattro punti percentuali di PIL. Nel 2007 il disavanzo dell’interscambio di energia non superava i tre punti percentuali. In valori assoluti il deficit energetico è salito dai 30 miliardi di euro dell’anno 2000 ai 42 miliardi del 2007 ai 61 miliardi del 2011 e potrebbe avvicinarsi ai 70 miliardi di euro alla fine di quest’anno.
L’Italia sta facendo progressi rilevanti sul fronte della riduzione del deficit pubblico. Non altrettanto accade sul piano del deficit energetico, nonostante la recessione dell’economia nazionale e le tendenze al ribasso dei prezzi di alcune forme di energia strategiche per l’import italiano qual è il gas naturale. Sono molte e complesse le determinanti della onerosità e della rigidità della nostra bolletta energetica. Oltre ai difetti di efficienza e di concorrenza sul mercato interno c’è un tema di “sicurezza” energetica che va ugualmente affrontato. E’ questa la lezione da apprendere dal caso americano, per accrescere la diversificazione degli approvvigionamenti per fornitore/fonti e per ridurre la dipendenza energetica dall’estero dell’economia italiana.
A livello globale l’energia rappresenta un fattore determinante dello scenario ambientale, economico e geopolitico. La conservazione di un fragile ecosistema si confronta con la pressione di nuovi e vecchi consumi in un Mondo dove oggi sono ancora 1,3 miliardi le persone che non hanno accesso all’elettricità. In questo grande teatro, i maggiori protagonisti della crescita economica si posizionano con solide strategie energetiche mirate alla maggiore efficienza, ma anche alla diversificazione delle fonti e alla riduzione della dipendenza dall’estero. Gli Usa e la Cina hanno idee più chiare di un’Europa che sul fronte energetico si muove in ordine sparso. Oltre al Fiscal Compact, occorrerebbe una comune politica industriale e un’unione europea per l’energia. Un’unione energetica europea, a sessantanni da quella che fu la Comunità europea per il carbone oltre che per l’acciaio. A noi italiani potrebbe essere molto utile, anche per rimuovere quel divario di costo dell’energia – la differenza tra 15 centesimi per chilowattora in Italia e 10 centesimi per chilowattora nel resto d’Europa – che pesa sulle imprese nazionali e contribuisce a rendere ancora più impervio il percorso verso la ripresa.