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Startup, illusori gli sgravi fiscali: meglio puntare su grandi imprese e poli d’eccellenza

Per far lievitare nuove imprese hi-tech più degli incentivi fiscali previsti dal decreto del Governo è decisivo il ruolo di sponsor delle grandi imprese e degli istituti di eccellenza orientati alla ricerca – L’indagine Bellandi-Coltorti presentata l’8 ottobre ad Artimino evidenzia il ruolo fondamentale di 39 poli sul territorio – La lezione di Becattini.

Startup, illusori gli sgravi fiscali: meglio puntare su grandi imprese e poli d’eccellenza

All’inizio del mese il governo ha approvato il decreto legge recante aggiunte al “cresci Italia”. Il provvedimento comprende disposizioni per favorire “start-up” innovative. Secondo la relazione illustrativa, “la creazione di un ecosistema favorevole alle start-up innovative rappresenta per la prima volta un preciso strumento di politica economica teso a favorire la crescita, la creazione di occupazione, in particolare quella giovanile, l’attrazione di talenti e capitali dall’estero… “. Val la pena esaminare le questioni di ordine generale e vedere poi alcuni dettagli. Circa le prime, è chiaro che questa politica non potrà risolvere oggi né la disoccupazione né l’insoddisfacente produttività. Nell’attuale contesto ciò che serve è una politica di breve periodo, volta a risollevare una domanda aggregata che il seguito della grande crisi del 2008 e le successive, malaugurate, disposizioni restrittive (guidate dall’errore europeo di puntare al pareggio di bilancio in una fase depressiva) hanno compromesso. Vi è un grave deficit di domanda interna che va colmato e poiché il sistema, da solo, resta in un equilibrio di sottoccupazione (Keynes insegna) occorre una politica robusta dal centro che possa farlo funzionare di  nuovo per il nostro bene invece che per il nostro male. Questo significa che bisogna agire, innanzitutto a livello comunitario e poi a livello di singoli stati. I ministri tecnici fanno un gran parlare di un nostro presunto deficit di produttività, ma non sembrano rendersi conto che esso è  figlio della caduta della domanda interna e del conseguente basso utilizzo delle fabbriche (valutabile in prima approssimazione tra il 70% e il 75%). Lo sforzo principale del governo, anche verso un’Europa che, come detto, appare poco ferrata in politiche antirecessive,  deve essere quindi centrato sul breve periodo, lasciando perdere le sirene che dipingono la competitività attraverso mirabolanti indicatori internazionali, tutti costruiti per dare un costante, inutile, risultato (si veda il bell’articolo di Gilles Ardinat su Le Monde diplomatique di questo mese).

Dunque: sostenere la domanda, ma quale? Essenzialmente quella per beni d’investimento che un accordo comunitario potrebbe escludere temporaneamente dai parametri assunti per misurare la spesa pubblica che concorre al fabbisogno annuale. Nel breve periodo una maggiore spesa per investimenti produrrebbe un inizio di ripresa grazie agli effetti moltiplicativi; nel lungo periodo saranno poi questi gli investimenti da cui verranno le innovazioni e quindi il salto di produttività. È questo il quadro nel quale dobbiamo valutare il provvedimento di cui ci stiamo occupando.

Vedo una critica di fondo da muovere al testo del decreto, articoli 25-32. La nostra cattiva legislazione è di lunga data e porta con sé un brutto modo di scrivere le norme. Ora va per la maggiore introdurre termini inglesi. Si parla di “start-up innovativa” quasi a significare un fenomeno nuovo per l’Italia. La task force a cui si è rivolto il governo tecnico per l’incombenza par giustificare la scelta esterofila perché obbligata: “come in tutto il mondo, come tutti quelli che le fanno, noi le chiamiamo start-up” (pag. 13 del rapporto “Restart, Italia!”: inglese anche qui…). In realtà le start-up costituiscono un fenomeno assai noto nel nostro paese, dove vengono volgarmente chiamate “nuove imprese” (e se son nuove non possono che essere innovative); ogni settimana se ne fondano 5.700 (1.100 se le consideriamo al netto di quelle cessate; fonte: ultimi dati Unioncamere). Meglio sarebbe perciò parlare di “nuove imprese dell’alta tecnologia”, altrimenti tanto vale buttare alle ortiche la nostra bella lingua. L’obiettivo del governo non è il flusso annuo (cospicuo) di nuove imprese, ma le sole definibili “intensive di ricerca”. Infatti le spese in R&D debbono rappresentare almeno il 30%, un terzo del personale deve essere costituito da dottori o dottorandi di ricerca o da laureati occupati sempre in ricerca, vi deve essere almeno una titolarità o licenza di sfruttamento di privativa industriale. Vediamo bene come il campo si restringa fino a comprendere una crème costituita dalle imprese che vogliono produrre “importanti” innovazioni tecnologiche. L’obiettivo è più che benvenuto, ma dobbiamo collocarlo, ripeto, in un contesto limitato. Oggi in Italia l’alta tecnologia può essere sviluppata da un insieme di istituti di eccellenza (per lo più universitari) e da alcune (poche) grandi imprese.

Il decreto del governo stabilisce di fatto un unico strumento, gli incentivi fiscali. In tre anni (a partire dal prossimo) si rendono deducibili le spese finalizzate alla sottoscrizione di quote di capitale di queste “start-up innovative”. Sono fissati limiti per ciascun investitore pari a 1,8 milioni, con partecipazioni da mantenere in portafoglio per almeno due anni. Condizioni di favore sono previste per le nuove imprese cosiddette a vocazione sociale o che puntano sull’energetico. La mia personale impressione è che serva ben altro per realizzare davvero e in tempi ragionevoli una “nuova”, consistente, struttura produttiva in aggiunta a quella basata su distretti e Quarto capitalismo (l’unica veramente competitiva che ora abbiamo): un programma di un certo rilevo (anche in termini di mezzi) nel quale vadano coinvolte in primo luogo le grandi imprese. Solo loro sono capaci di generare quell’ecosistema che il decreto immagina poter nascere miracolosamente da semplici deduzioni fiscali. Una soluzione potrebbe essere quella di impostare una politica industriale sulle imprese con i maggiori budget di ricerca; esse potrebbero essere “indotte” a far da sponsor a “nugoli” di “start-up innovative”. Un neo imprenditore che voglia far crescere un’impresa di questo tipo ha bisogno di capitali, ma anche e soprattutto di “consigli” ovvero di supporti tecnici e di marketing essenziali per lo sviluppo della sua idea promettente. Gli attori “forti” di questa politica sarebbero un governo autorevole, alcune grandi imprese tecnologiche (le quali dovrebbero smettere di puntare sulla minimizzazione dei costi orientandosi invece sulla conquista dei mercati attraverso la vendita di prodotti nuovi), molti enti “facilitatori” dell’incontro tra il piccolo neo-imprenditore e la grande impresa. La Fondazione Ricerca & Imprenditorialità è un esempio di questi possibili facilitatori, ma non l’unico. Abbiamo centri di eccellenza in alcuni poli sul territorio: nel Rapporto di Artimino del 2008 sono stati individuati 39 poli e nella recente indagine presentata l’8 ottobre, sempre ad Artimino, da Marco Bellandi e dal sottoscritto è stato messo in evidenza come essi abbiano realizzato sensibili aumenti di esportazioni in tempi di crisi.

Resta la questione di fondo: quale modello d’impresa deve stare alla base di questa politica? Giacomo Becattini (Per un capitalismo dal volto umano, Bollati Boringhieri 2004) distingue due generi: l’impresa nucleolo di capitale e l’impresa progetto di vita. Nella prima l’obiettivo del fondatore è semplicemente quello di far rendere il suo capitale per ottenerne un reddito di entità tale da annullare il rischio che corre. Nella seconda una persona mette a frutto la sua reputazione e la sua competenza per dare origine ad un progetto di vita. Forse potrebbero andar bene entrambe, ma il governo sembra preferire le prime, poste le norme che facilitano le stock option; le speranze di successo sono però, storia insegna, tutte sulle seconde. Esse assicurano una maggiore occupazione, una stabilità di lungo periodo e, ultimo ma non per importanza, la conservazione dei territori che costituiscono il nostro vero vantaggio competitivo. L’AREA parco scientifico, uno dei nostri maggiori centri di eccellenza tecnologica, pubblica un quadrimestrale per illustrare il contesto nel quale si sviluppano le sue nuove imprese. L’ultimo numero è dedicato al cibo e alla “scienza buona del mangiare”: cura delle infezioni alle piantagioni di kiwi, nuovi ceppi di lievito per influire sulle proprietà organolettiche del pane, miglioramento qualitativo delle specialità locali (prosciutto cotto caldo, pinza triestina, brovada friulana), alimenti salva cuore, test per verificare le intolleranze al lattosio, nuovi prodotti estratti dalle foglie dell’ulivo, lotta alle contaminazioni e alle frodi alimentari, studio del piacere del caffè, ecc. ecc. Natura non facit saltum.

***Sulle START UP HI-TECH sono di recente intervenuti su FIRSTonline anche Riccardo VARALDO (9 settembre) e Guido REY (28 settembre) 

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