Nonostante sia governata dal 2005 da una donna, se c’è un settore in cui la Germania non è un modello per l’Europa, è proprio quello della presenza delle donne nella società.
Un vero e proprio paradosso, se si pensa che la cancelliera è da ormai 7 anni Angela Merkel (nel cui governo 5 ministri su 15 sono in quota rosa), che ha portato il Paese ad essere l’economia più solida del continente, da prendere ad esempio su più di un fronte ma non, però, su quello dell’emancipazione femminile.
Eppure oltre alla cancelliera di ferro, ci sarebbe un altra donna-modello nelle posizioni di vertice a Berlino: quella Ursula von der Leyen, ministro del Lavoro e madre di ben sette figli, che a suon di riforme ha provato ad invertire il trend. Senza risultati, però, almeno per il momento: nel 2010, il tasso di natalità della Germania era ancora fermo a 1,4 figli per donna (1,3 nel 2008), mentre dall’altra parte del Reno, in Francia, ogni donna ha in media due figli, il che porta la crescita demografica allo 0,5% annuo, mentre nel Paese teutonico è in costante calo dal 2003 (-0,3% nel 2009).
Il dato, oltre a porre una questione demografica generale, rappresenta il vero problema della “vie en rose” di Berlino e dintorni: o la carriera, o i figli. Questione numero uno è la carenza di asili nido, a cui attualmente accede solo il 20% dei bambini. Poi, nell’età scolastica, in virtù di un sistema all’italiana in cui i piccoli finiscono le lezioni alle 13, la situazione non migliora (mentre in Francia, appunto, si va a scuola fino alle 16). Risultato: la Germania, secondo lo studio “Die Demographische Lage der Nation” condotto dall’Istituto demografico di Berlino, è l’unico Paese al mondo in cui il 20% delle donne non diventeranno mai madri (10% in Francia).
E il problema si pone con maggiore allarme presso la parte di popolazione femminile più istruita: nonostante i sette mesi di congedo di maternità previsti per legge, pagati fino a 1.800 euro al mese, il 40% delle tedesche in possesso di un titolo di studio dal diploma in su non hanno figli. La più celebre tra loro, a rappresentare in questo caso l’emblema del cattivo esempio, è proprio Angela Merkel.
E mentre in Italia siamo indignati per i “licenziamenti facili” ai danni delle lavoratrici donne, anche in Germania non è tutto “quote rosa e fiori”. Le aziende mettono di fronte a una scelta netta: se vuoi lavorare, ti ci devi dedicare a tempo pieno. Altrimenti, difficilmente ti assumiamo. E ancora più difficilmente ti affidiamo incarichi di vertice. Tutto questo fra l’altro avviene con il tacito placet della cancelliera, che ha prima provato a imporre per legge una quota rosa obbligatoria al 30% nei quadri dirigenziali delle grandi aziende, ma poi, di fronte alla reticenze delle stesse, non ha osato calcare ulteriormente la mano. E di recente, a fine febbraio, qualcuno ha iniziato ad alzare la voce: 350 giornaliste delle testate più note del Paese hanno lanciato una petizione per ottenere più posti negli uffici dei capiredattori.
Tuttavia, alcuni grandi gruppi hanno ugualmente deciso di cambiare. Deutsche Telekom, per esempio, l’anno scorso ha fatto insediare due donne nel suo consiglio d’amministrazione. Un gesto simbolico ma ancora insuffiìciente, visto che le donne rappresentano ad oggi il 51% dell’intera popolazione tedesca.
Ma nella Germania leader dell’Europa e all’avanguardia per diritti e servizi sociali, è proprio il caso di dirlo, non è tutto rosa quel che luccica.