La presenza delle donne nell’economia? Basta piangersi addosso: di passi avanti ne sono stati fatti, e non sono pochi. Anche se certamente altro resta da fare Luisa Todini, imprenditrice in un gruppo importante come Salini Impregilo, ex europarlamentare con Forza Italia e poi membro del consiglio d’amministrazione Rai fino allo scorso novembre, non è il tipo che ama crogiolarsi sul bicchiere mezzo vuoto. A 19 anni è entrata all’università e da allora, la sua vita professionale è andata sempre in crescendo. Ora che ne ha quasi 49 e, da quasi un anno, è presidente di Poste italiane e la prima donna a ricoprire questo incarico, è la testimonianza in carne e ossa che sì, le donne possono arrivare nella stanza dei bottoni, ma anche dell’impegno necessario per raggiungere l’obiettivo. Con lei, dunque, nella giornata internazionale dell’8 marzo, parliamo di donne, della loro crescita e delle difficoltà che incontrano nella società e nelle imprese nell’Italia del terzo millennio.
Donne e manager, a che punto siamo?
“I passi avanti, rispetto a quando ho iniziato il mio percorso, sono molteplici anche per chi non ha avuto una vita fortunata come la mia. Il cambiamento più evidente, di approccio culturale, è questo: trent’anni fa si pretendeva dalle donne l’eccellenza. Diversamente che con gli uomini, non si perdonava loro l’errore. Oggi questa discriminazione si percepisce meno e soprattutto si comincia concretamente ad acquisire il fatto che il mix di genere è portatore di performance positive in un’azienda, aggiunge valore. Lo dimostrano gli studi e le statistiche ma sta anche entrando nel vissuto quotidiano. E non è poca cosa”.
Questo vale anche anche a livello di vertice?
“In generale bisogna riconoscere che in questi anni, nonostante la tendenza a piangersi un po’ addosso, si sia verificato un aumento della presenza femminile nel mondo del lavoro anche nei livelli apicali. Le donne si sono affacciate sul lavoro non solo per ragioni di emancipazione ma anche per la necessità di contribuire al reddito familiare, in particolare durante la crisi. Molte hanno combattutto per crescere e migliorare il proprio ruolo ma penso che l’Italia sia al passo con l’Europa anche per le posizioni di vertice”.
E’ merito anche della legge sulle quote rosa?
“Ci siamo molto battuti, nei cinque anni in cui sono stata deputata al parlamento europeo per ottenere delle normative che sostenessero la presenza qualificata delle donne nelle aziende: industriali, bancarie o finanziarie che fossero. I primi Paesi a dotarsi di leggi adeguate sono stati quelli del Nord Europa ma anche l’Italia ora può camminare a testa alta”.
Dunque la legge è servita…
“La legge Golfo-Mosca sulle quote rosa, approvata nel 2011, ha portato importanti risultati: oggi oltre il 90% delle società quotate ha almeno una donna nel consiglio d’amministrazione e, con gli ultimi rinnovi, raggiungeremo una presenza del 28% di donne nei board. Avere un posto in Cda non corrisponde necessariamente ad avere un ruolo di comando ma significa guardare l’attività aziendale dal cruscotto dell’auto e non più dal sedile posteriore. Quando sono stata indicata per la presidenza di Poste Italiane – così come Patrizia Grieco per Enel e Emma Marcegaglia per Eni – qualcuno ha osservato che i presidenti non hanno potere. Non è vero: i presidenti dirigono i consigli d’amministrazione in cui si danno le linee-guida agli amministratori delegati. Ma soprattutto ora possiamo guardare alle aziende dall’alto, non siamo più trainate. Detto questo, le donne amministratore delegato, in Europa, sono appena il 3%. Troppo poche”.
Altro muro ancora lontano dall’essere abbattuto è quello della differenza di retribuzione tra uomo e donna, a parità di mansioni.
“Assolutamente. Il gender gap è ancora del 16% su base salariale oraria ma sale al 31% in base al salario annuale perché si sconta l’effetto del lavoro part time. D’altra parte, se in una cerimonia internazionale come l’assegnazione degli Oscar, in un Paese democratico come gli Stati Uniti, un’attrice come Patricia Arquette si sente in dovere di richiamare l’attenzione di tutti sul problema delle differenze salariali e delle discriminazioni di genere, vuol dire che il problema è serio e sentito. Lo si avverte di più nei Paesi emergenti ma è illusorio pensare che non riguardi anche noi: la portata è mondiale, dobbiamo affrontarlo tutti insieme”.
Lei conosce il mondo dell’impresa privata, da cui proviene, ma anche quello dell’impresa pubblica: dopo la Rai, ora è al vertice di Poste. Differenze?
“Sono cresciuta in un’impresa di costruzioni, la Todini fondata da mio padre poi confluita in Salini-Impregilo. È un mondo, quello delle costruzioni, dall’attitudine maschile dominante. Ma guardando invece alle altre mie attività imprenditoriali opero anche in altri settori – energia, hotellerie, agricoltura, immobiliare. Qui la presenza femminile è di circa il 20%, anche a livelli qualificati, e posso dire che non c’è discriminazione”.
E in Poste, quando cammina nei corridoi dei piani alti del palazzo all’Eur, incontra solo uomini?
“Non ci voleva un presidente donna, come me, per dire che Poste è una pink company: il 53% del personale è femminile e così anche il 58% dei direttori degli uffici postali. L’azienda nasce nel 1862, nel 1865 entra la prima donna: stiamo parlando di due secoli fa.
Venendo all’oggi, su cinque consiglieri d’amministrazione insieme a me c’è Elisabetta Fabbri che è anche amministratore delegato del gruppo Starhotel. Su tre membri del collegio sindacale due sono donne. E anche tra i manager di prima linea scelti dall’Ad posso dire che c’è un discreto livello di rappresentanza femminile.
Infine, l’azienda garantisce il 100% della retribuzione nei cinque mesi del congedo di maternità, quindi oltre l’80% obbligatorio per legge: non siamo costretti a farlo, allocare le risorse è una scelta del Cda che favorisce le famiglie. Quindi le donne”.