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150 anni d’Italia: un’unità tardiva e il tesoro delle piccole e medie imprese

L’Italia è un “paese” a tardiva unificazione, fenomeno non insolito e contrapposto ad altre due forme statuali e nazionali di “formazione”. La prima è quella dei paesi a unificazione precoce, ossia quelli giunti all’unificazione prima del trattato di Westfalia (1648): la Francia e la Spagna. Dopo dure lotte dinastiche e – nel caso della Spagna – religiose (la “Riconquista”) e precipuamente autonomistiche (i Paesi Baschi e la Catalogna). Il Regno Unito sta a sé: è anch’esso a tardiva unificazione, o meglio, è il primo dei paesi a tardiva unificazione, perché la questione dinastica e religiosa si risolve prima di Westfalia, ma ha profondi strascichi: la divisione non solo culturale con la Scozia e con il Galles e resta la questione irlandese che è, addirittura, una scissione con ferite che solo recentissimamente si sono sanate (il viaggio in Irlanda della regina Elisabetta). La seconda forma d’unificazione è quella degli stati che non sono a tardiva unificazione perché ricompongono entità culturali e territoriali e non centripete diverse, ma che lo sono perché nascono tardivamente per il crollo degli imperi nel Novecento: gli stati dell’Europa Centrale (dall’impero austro-ungarico); gli stati del Nord Africa e del Medio Oriente e dei Balcani e la Grecia (dall’impero ottomano). Un’annotazione: dal crollo dell’ìmpero zarista nasce un altro impero ad allocazione statualistica e burocratica dei diritti di proprietà come quello sovietico. E solo recentissimamente, dal crollo di quest’ultimo, nascono altre tardive nazioni.

Così come tardive furono le nazioni del e dal Commonwealth, dall’Africa all’Oceania. Per quanto concerne l’Africa è noto che il crollo degli imperi europei (francese, belga, tedesco, italiano, inglese) produsse nazioni artificiali che solo recentemente vengono ristrutturandosi dopo quella che io chiamo la prima guerra mondiale africana che si è svolta nel tardo Novecento e che per certi versi è ancora in corso attorno alla regione sub sahariana dei Grandi Laghi: il cuore di tenebra di Conrad. Per la prima volta nella loro storia, dopo la fine degli imperi (anche di quelli africani) e la fine della guerra fredda, perché anche l’impero sovietico volle dominare l’Africa (si ricordino la Tanzania e Cuba, e la lotta di liberazione contro l’impero portoghese che diede vita a forme statuali tribal–comuniste-burocratiche). Le tribù africane si apprestano oggi, invece, a definire da sé medesime per la prima volta i confini statuali (è la vicenda in primis del Congo o “dei Congo”), giungendo sino a forme di secessione (il Sudan). L’Asia, invece, è stata terra di imperi pre-europei e poi europei: Indocina e India. E di imperi mai conquistati dagli europei e ancora adesso attivi ed operanti, pur sotto diversissime forme: Cina e Giappone. E infine rimane l’America Latina. Nasce per implosione e per conservazione-perpetuazione. L’implosione è la disgregazione dell’impero spagnolo. Una vicenda che va letta nel solco della visione che Hegel ebbe di quello che per Lui rappresentava lo spirito assoluto nella battaglia degli imperi terreni: Napoleone a Jena a cavallo apre ai destini del dominio occidentale dello spirito assoluto: Hegel lo vide passare e pensava allo spirito assoluto europeo, ma il grande Corso incarnava, invece, la finitezza dell’infinito su scala mondiale. Cosicchè l’impero sudamericano spagnolo si disgregò e lì lo stato nacque prima della nazione, perché fu definito dal clangore delle armi delle battaglie tra le élite commerciali della costa e le èlite terratenienti dell’interno (Argentina, Cile, Paraguay, Uruguay, Bolivia, Perù).

E’ il Perù il cuore palpitante da cui tutto inizia nella via politica e culturale sudamericana. La preservazione-conservazione, a contrario dell’implosione ispanica, dell’impero portoghese che per la sua intima natura coesa e monarchica fonda il miracolo economico politico e civile del Brasile monarco-massonico prima e repubblicano oggi. Infine, rimane la costruzione della potenza che pare aver avuto da Dio il compito di dominare il mondo, insieme a tutta la civiltà mondo anglosassone dalla cui costola gemma con una costituzione e con una ribellione insieme. Strano paradosso: la potenza dominante mondiale nord americana sorge da un’insubordinazione all’impero britannico. Essa dona, infatti, all’anelito mondiale perenne – tutto nord-americano – alla libertà una forza statuale. In questo vortice della storia mondiale dove si colloca l’Italia? Potenza regionale potenzialmente egemonica mediterranea e balcanica è, sì, a unificazione statuale tardiva, ma è a radici culturali antichissime nella comunità dei colti. Dante invoca l’imperatore tedesco che unisca ciò che è separato, ma lo fa con una lingua che tedesca non è. È il volgare: la prima lingua italiana. Petrarca fonda la purezza stilistica italiana alla corte di Francia e l’ombra gigantesca di Macchiavelli descrive la decomposizione del potere degli antichi stati italiani in una lingua che – come quella di Galileo – va dal cuore delle arti alla cristallinità della scienza e costruisce un lessico che durerà sino a Manzoni, il quale invererà la toscanizzazione della lingua e, insieme, la nazionalizzazione dell’impegno civile degli intellettuali. Leopardi, il grande poeta e filosofo dell’Ottocento è il più italiano di tutti, mentre afferma nello Zibaldone che gli italiani non hanno virtù, ma solo usi e costumi: eleva la lode ad Angelo Maj che canta un’Italia che vorrebbe inverare e che sarà sconfitta. Una costruzione intellettuale, dunque, quella italiana, lunghissima, che pone le basi dell’utopia del Risorgimento italiano.

Da un lato guerra contro l’impero e quindi fuoriuscita dall’impero austroungarico, ma nella stessa temperie e con attori spesso simili, lotta con l’impero francese e con l’impero britannico. Infatti non vince Cattaneo, ma Casati… Ed eccoci qui, in Piemonte, l’antico stato italiano di nobiltà guerriera e mercenaria, come disse Engels nell’insuperato Po und Rhein; la monarchia minore che unificherà gli antichi stati non sotto l’acciaio degli Junker prussiani, che tempra popoli e civilizza diabolicamente, come accadde in Germania, ma sotto la sciaboletta di latta savoiarda che unifica istituzionalmente ma in verità affianca antropologicamente le diversità senza superarle mai ed è benevolente nella e per la scarsa civilizzazione. Ne sortirà l’assenza di uno stato sin dall’inizio che devertebrerà la nazione e la sottoporrà alla logica della sudditanza anziché a quella della cittadinanza. La tormentata ed eroica ed enigmatica monarchia sabauda… Mentre si combatteva un impero dell’Europa continentale, l’unificazione avveniva attraverso il sottile gioco diplomatico dell’alleanza e dello scontro e poi ancora dell’alleanza tra una nazione continentale e mediterranea a vocazione imperiale: la Francia. Affiancata da una nazione transatlantica imperiale e dominatrice di fatto del mondo di allora: il Regno Unito, senza il quale nessuna unificazione sarebbe stata possibile in un mare Mediterraneo eterna area di contesa, come le vicende odierne dimostrano. Dalla tensione dialettica tra questi due poli, unitamente alla rivolta del patriziato e del popolo, nacque l’Italia. Ma nacque un’Italia come questione cattolica. In definitiva il Risorgimento secondo Rosmini, il quale da eretico si è trasformato in santo perché il disegno della Provvidenza è molto più acuto di quello degli uomini, il Risorgimento ha contribuito a guarire da una delle sette piaghe la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, eliminandone il potere temporale. E questo sarà uno dei suoi meriti, come Gioberti aveva ben intuito, così come uno dei pochi meriti del fascismo fu quello di risolvere con il Concordato del 1929, definitivamente, quella questione.

I padri costituenti nell’articolo 7 vollero non solo riaffermare quella soluzione, ma altresì porre le basi per l’ultimo e recente Concordato. La questione romana fu tuttavia decisiva perché privò il paese per lungo tempo, sino ai prodromi della Prima Guerra Mondiale, di un’eccezionale forza morale e intellettuale che a fianco di quella massonica e socialista poteva – ben prima di quanto non successe – porre le basi di quell’Italia in cammino ben descritta da Volpe. Quell’Italia moderna che pose le basi dell’Italia contemporanea. La contemporaneità, in effetti, fu il disvelamento di quella così fragile e leopardiana Italia dalle pressochè inesistenti virtù… Aveva tuttavia in sé i germi per opporsi nuovamente a un impero, terribile, pagano: quello nazista e far rinverdire una sua gloria eroica liberatrice dalla dittatura fascista, grazie all’alleanza con uno degli storici imperi che l’aveva creata, l’Italia, quello britannico, e con quello nuovo che si affacciava sulla scena come dominatore, gli Stati Uniti. Ecco l’Italia nuova, quella che sessanta anni or sono circa, pose le basi dell’Italia di oggi e che, di fatto, di quella rivoluzione nazionale patriottica più che sociale che fu la Resistenza, è ancora figlia. Lo dimostrano le sue subculture politiche. Si sono decomposti gli storici partiti resistenziali di massa, hanno cambiato nome i loro stendardi, si è disgregata l’unità giuridica dello stato sotto la pressione dall’alto che promana dall’unione europea monetaria e legislativa – e che promarrà or ora dal basso con il federalismo – in assenza di uno stato europeo che sostituisca quello autoctono inesistente: tutto questo è accaduto con gran clangor di buccine. Ma tuttavia, come fiumi carsici, quelle subculture rinascono, sono attive nei nuovi partiti personali e neocaciquisti che ci dominano e, nel rinnovato vigore che hanno assunto le associazioni intermedie di cui Loro sono testimonianza, ritrovano un ruolo civile liberatorio. Crollo dell’Unione Sovietica, da un lato, indebolirsi della potenza nordamericana dall’altro; il rifiorire di una Chiesa rosminiana e a tratti giobertiana, tutta rivolta al bene della Nazione, dall’altro ancora. Superamento delle stesse divisioni tra fascismo e antifascismo nel farsi politico odierno.

Tutto ciò pone su basi nuove quelle antiche culture politiche e ciò può far rinascere l’Italia, nonostante le enormi difficoltà del presente, in un contesto di grandi speranze. La mia convinzione è che quanto più la questione cattolica ritornerà a essere questione italiana, percepita come tale non solo istituzionalmente ma eticamente, secondo i fondamenti di una nuova società cristiana, la società di Thomas Stearns Elliot, in quel mirabile testo tradotto in Italia da Adriano Olivetti nell’aureo periodo comunitario, ebbene, quelle speranze potranno essere compiute. È in questo contesto di comunità di destino, di controverso ma continuamente ricercato impegno morale, che la questione economica e la questione dell’associazionismo economico devono essere intesi per comprendere pienamente la distintività della storia d’Italia. In un paese a unificazione tardiva, a valori unificanti deboli, lo stato imprenditore, anche se civilmente debole, non poteva non avere storicamente all’inizio un ruolo rilevantissimo: doveva dall’alto fondare l’ordine sociale che era così difficile far scaturire dal basso, da quella società di persone che sola, tuttavia, fonda l’autorevolezza dello stato perché lo precede e lo legittima, perché quell’autorevolezza promana ed è fondata sulla sussidiarietà orizzontale anziché sulla verticalità distributiva annichilente. L’impresa, e in primis la piccola e la piccolissima impresa è sempre stata l’humus creativo di quella società di persone che noi vogliamo porre al centro della questione nazionale. L’ondata delle privatizzazioni e della distruzione dell’impresa pubblica dello stato non più amministrativo ma neo-patrimonialistico ha rivelato la benefica presenza di un altro modello d’ impresa e di proprietà (penso alle banche e alle società cooperative). È la piccolissima, piccola e media impresa che ora scopriamo essere stata ed essere al centro nei momenti cruciali, anche economici, della questione della crescita e dello sviluppo. In primo luogo fu l’unificazione del mercato nazionale in un paese che storicamente si era collocato in diverse e non convergenti gerarchie dei mercati mondiali.

In secondo luogo fu la costruzione dei rapporti tra città e campagna e tra centro e periferia mentre venivano affrontate dalle grandi imprese e quindi dalle grandi strutture nazionali pubbliche e private le interconnessioni di un territorio fortemente antropizzato ma impervio e difficile per le comunicazioni. Come raggiungere con la forza della società civile economica la vita quotidiana dei cittadini? Questo fu ed è possibile solo con le successive ondate della creazione delle piccole e medie imprese che è sempre stata una caratteristica storica saliente del nostro territorio. In Italia le grandi ondate della crescita, non solo economica, ma anche politica e civile, sono anche state le ondate della nascita e della crescita delle piccolissime, piccole e medie imprese: l’età giolittiana, il secondo dopoguerra, la ripresa dalla recessione del 1964, la ristrutturazione delle grandi imprese, la fine dei contratti di mezzadria, il ritorno degli emigranti. E, infine, la riconosciuta irreversibilità del ruolo centrale nella globalizzazione della piccola e piccolissima impresa. In definitiva, l’artigianato definisce metaforicamente il destino storico distintivo dell’Italia: in sé conserva il millenario frutto della capacità artistica e creativa dell’Italia pre-unitaria e insieme la rinnova, grazie e con le tecnologie dell’Italia post-unitaria e dell’universo mondo che si apre dinanzi a noi tutti. Per questo possiamo parlare di comunità di destino e con orgoglio celebrare da artigiani italiani l’unità d’Italia.
* Ordinario di Storia economica all’Università Statale di Milano

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