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Corso (Polimi): “Lo smart working fa lavorare di più e meglio e vale quasi 14 miliardi”

INTERVISTA del WEEKEND a MARIANO CORSO, docente del Politecnico di Milano e responsabile dell’Osservatorio Smart Working – “Scordatevi i vecchi modelli di lavoro flessibile degli anni scorsi, dal telelavoro al part time”: lo smart working è tutta un’altra cosa, che “oggi in Italia riguarda solo 305 mila lavoratori” ma che può valere “13,7 miliardi di euro di valore aggiunto”.

“Scordatevi i vecchi modelli di lavoro flessibile che abbiamo conosciuto negli anni, dal telelavoro al part time: lo smart working non è definibile né lavoro flessibile e nemmeno lavoro agile. E’ un modello manageriale che interviene nel rapporto tra individuo e azienda e che propone autonomia nelle modalità di lavoro a fronte del raggiungimento dei risultati”. Così, intervistato da FIRSTonline, Mariano Corso, docente del Politecnico di Milano e responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working, definisce lo smart working e commenta i dati della ricerca dell’Osservatorio: “Al momento riguarda solo 305mila lavoratori in Italia, ma potenzialmente può valere 13,7 miliardi di euro di valore aggiunto per il Paese”.

Professore, lo smart working non significa dunque semplicemente “lavorare da casa”?

“Non solo. E’ vero che gli smart worker trascorrono mediamente solo il 67% del tempo lavorativo in azienda, contro l’86% degli altri, ed è anche vero che sono sempre meno legati a una singola postazione all’interno della stessa azienda. Ma lo smart working supera il concetto di spazi e orari lavorativi, consentendo ai lavoratori di gestire in maniera flessibile il proprio lavoro, che viene organizzato e giudicato in base ai risultati. Tutti i dati in nostro possesso ci dicono che questo li porta a lavorare di più, e non di meno come si tende a pensare, e meglio.”

Perché?

“Perché il lavoratore viene responsabilizzato ed è così molto più motivato. Secondo la nostra ricerca soltanto l’1% degli smart worker si ritiene insoddisfatto nel complesso (contro il 17% degli altri lavoratori), mentre il 50% è pienamente soddisfatto delle modalità di organizzare il proprio lavoro (22% per gli altri) e il 34% ha un buon rapporto con i colleghi e con il capo (16% per gli altri). Avere meno vincoli contribuisce anche a creare un miglior clima in ufficio e dunque più produttività”.

Maggiore produttività che voi avete stimato, a pieno regime, in 13,7 miliardi. Non è poco…

“Al momento in Italia ci sono 22,5 milioni di lavoratori, di cui 5 milioni fanno lavori per così dire di concetto e quindi compatibili con lo smart working. Considerando che in media, finora, nelle aziende che hanno offerto l’opportunità di smart working ha aderito al progetto il 70% dei lavoratori (per un totale che attualmente è di 305mila lavoratori), significa che circa ulteriori 3 milioni di lavoratori sono immediatamente arruolabili. Se si considera che secondo tutti gli studi, anche internazionali, lo smart working aumenta la produttività del 15% per l’azienda per ogni smart worker, ecco che si arriva a stimare un potenziale beneficio di quasi 14 miliardi l’anno. Mezza legge di Bilancio”.

Oltre all’aumento della produttività, quali sono gli altri benefici per azienda, dipendenti e società?

“L’azienda ha meno costi, perché se i dipendenti possono lavorare da remoto si riducono gli spazi fisici e i consumi. Mediamente l’abbattimento è del 30%, ma abbiamo avuto anche casi, come la sede di Zurich a Milano, di un dimezzamento dei costi. Poi l’azienda diventa più attrattiva, soprattutto per i giovani. Per il lavoratore invece migliora la cosiddetta worklife balance, cioè l’equilibrio tra vita privata e professionale: questo comporta meno assenze, più motivazioni, persino meno malattie, e come abbiamo detto più soddisfazione personale. Senza contare i vantaggi economici: meno costi per gli spostamenti e un guadagno di 2-3 ore di tempo a settimana, da dedicare o alla qualità stessa del lavoro o al tempo libero. Smart working significa anche pari opportunità: non come le abbiamo intese finora, con diritti concessi alle lavoratrici che però finivano per renderle meno produttive agli occhi dell’azienda, ma con la possibilità di svolgere a tutti gli effetti un lavoro full time anziché dovervi rinunciare o doverlo tramutare in part time. Infine, l’inquinamento: andare meno fisicamente in ufficio o in fabbrica abbatte il traffico e i consumi energetici. Difficile quantificarlo, ma direi che ogni lavoratore smart vale quanto due alberi piantati”.

Ma lo smart working è davvero applicabile a tutti i lavori? E le fabbriche? Bisogna pur che qualcuno ci vada a costruire materialmente i prodotti.

“Di principio sì, lo smart working è applicabile, anche se non ovviamente in tutte le sue modalità. Magari con una flessibilità di orari ma non di spazi. Le cito però un esempio, quello della fabbrica di Tetrapak a Modena: l’autonomia e la cultura del risultato si applicano non al singolo lavoratore ma a un team, che quindi è capace di autogestirsi anche non presentandosi fisicamente e al completo in azienda. L’impianto è aperto dalle 6 alle 23 e l’operaio non timbra il cartellino ma autocertifica le sue presenze e anche gli straordinari. Si può persino lavorare da casa tramite degli appositi kit forniti dall’azienda”.

Non si rischia di confondere lo smart working con alcuni esperimenti di riduzione degli orari lavorativi, come le famose 6 ore testate nei Paesi scandinavi?

“Sono cose diverse ma è un tema anche quello. Di fronte alla disoccupazione tecnologica c’è chi si è chiesto: impiego meno persone o le impiego meno ore? E’ il cosiddetto ‘lavorare meno per lavorare tutti’, che però non mi convince. Da un lato è inclusivo, ma nella nostra società chi è più motivato è portato comunque a lavorare di più, quindi credo poco in questa soluzione”.

Quindi come si combatte la disoccupazione tecnologica?

“Non facendo lavorare meno le persone ma facendole lavorare meglio e diversamente. Penso anche che si debba andare oltre gli schemi del lavoro produttivo, ma che si debba ad esempio dare maggiore riconoscimento ad attività di importanza sociale, al terzo settore, al volontariato”.

A proposito di tecnologia: lo smart working è strettamente legato anche all’innovazione, e dunque all’Industria 4.0.

“Assolutamente. Industria 4.0 significa tante cose, ma prima di tutto automazione dei processi produttivi, il che porta a sostituire lavori manuali con lavori intellettuali e legati alla progettazione e all’informazione. Prima per fare un pezzo c’era una catena di montaggio, operai, magazzinieri. Ora c’è la stampante 3D che viene azionata da un modellista software, che può lavorare in modo flessibile e dunque essere a tutti gli effetti uno smart worker. L’Industria 4.0 porta a lavorare con strumenti che consentono e anzi richiedono più flessibilità”.

Lo smart working in Italia è legge, con la riforma Madia. Come la giudica?

“E’ la miglior legge a livello europeo e forse la più avanzata al mondo, per un semplice motivo: è equilibrata. L’approccio finora, da parte di Paesi pionieri come Uk, Olanda e Svizzera, è stato quello del riconoscimento di un diritto al lavoratore: impostazione vecchia e pericolosa. Lo smart working è un’opportunità sia per il lavoratore che per l’azienda, è un accordo volontario e reversibile tra due parti. La legge Madia fissa anche come obiettivo che in tre anni il 10% dei lavoratori pubblici siano smart worker, mentre ad oggi solo il 5% delle aziende della PA ha progetti di SW, a fronte del 36% delle grandi aziende private. L’obiettivo del 10% è raggiungibilissimo, e negli anni sarà molto migliorabile. Mi piace anche che non siano previste sanzioni, altrimenti finiva come col telelavoro che infatti non ha funzionato”.

Cosa invece non le piace della legge?

“Che non siano state indicate le risorse. E’ una legge volutamente un po’ light, che non prevede gli investimenti che invece sono necessari, soprattutto in tecnologia e formazione. Come abbiamo visto i ritorni sarebbero poi notevolissimi. Vedremo se nel tempo ci sarà il modo di reperire finanziamenti”.

Quali sono i rischi dello smart working?

“Il fatto che possa limitarsi ad essere una moda del momento, perché viene identificato con la comodità, ad esempio, di poter lavorare da casa. Invece SW è orientamento ai risultati, competenze digitali, soddisfazione personale, benefici economici per tutti. Bisogna lavorare molto sulla formazione dei manager, perché è dalla consapevolezza dei vertici che dipende tutto. Altro rischio è quello del sovra-lavoro: il pericolo è che potendo lavorare in qualsiasi momento e dappertutto, si finisca per lavorare sempre. Questo creerebbe nuovi problemi anziché risolverli”.

In Italia abbiamo già dei campioni di smart working, che il vostro Osservatorio ha premiato.

“Sì, abbiamo ad esempio Generali Italia che si è distinta nel welfare aziendale, o Costa Crociere, o CNH Industrial che è un caso interessante perché manifatturiero, che ha puntato su nuovi modelli manageriali e anche di pari opportunità. Abbiamo anche riservato una menzione speciale per Benetton, che ha appena avviato un percorso, mentre il progetto più bello è quello di AXA Italia, che già da oltre un anno ha eliminato le timbrature e i permessi, consentendo ai dipendenti di lavorare due giorni alla settimana da casa e organizzando gli orari in maniera flessibile, sulla base degli obiettivi da raggiungere. Da quanto dicono questo ha pagato sia in termini di produttività che di clima all’interno dell’azienda”.

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