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Lingua: il passaggio da quella parlata a quella scritta e dalla lingua facile a quella difficile

Diciamo che “l’Italiano si legge come si scrive”, ma in realtà dovremmo dire che “si scrive come si pronuncia”. Percepiamo alcune lingue come facili e altre come difficili: qual è la realtà?

Lingua: il passaggio da quella parlata a quella scritta e dalla lingua facile a quella difficile

Riprendiamo la nostra serie di articoli sulla lingua italiana del glottologo Daniele Vitali che in due interventi, quello che vi proponiamo oggi è il primo, si sofferma sulle dinamiche del passaggio dalla lingua parlata a quella scritta che conduce alla percezione di una preminenza di quest’ultima.

Infatti nei primi anni di vita abbiamo un rapporto esclusivamente parlato con la lingua, poi però a scuola impariamo l’alfabeto. Così, tra dettati, pensierini e quadretti “E come edera” appesi alle pareti, cominciamo a interiorizzare l’idea di una preminenza della parola scritta. Ora verrebbe da chiedersi se nell’italiano questo passaggio è facile o difficile a confronto di altre lingue.

Vediamo come Vitali affronta questa questione.

Discussioni adolescenziali sulla Q

“In quando si sente proprio la Q”, disse una volta la mia compagna di banco del liceo. Io espressi dei dubbi e azzardai che potremmo anche scrivere cuando e la pronuncia non cambierebbe. “Non è vero!”, si scandalizzò lei, “in quando si sente la Q e scriverlo con la C sarebbe da ignoranti”. Ora, il mio intento non era negare che sarebbe da ignoranti scrivere “cuando” al liceo, bensì che l’uso della Q avesse una ragione fonetica.

In effetti, se davvero si sentissero suoni diversi tra “quando, quadro” e “cuore, scuola”, oppure tra “acqua” e “soqquadro”, non ci sbaglieremmo mai, neanche in prima elementare. Se, invece, c’è tanta riprovazione verso lo scambio fra Q e C è perché si tratta di un errore diffuso. Come mai è tanto diffuso confondere le due lettere quando impariamo a scrivere? 

L’etimologia

Perché, com’è normale, seguiamo l’orecchio anziché l’origine delle parole: “quando” e “quadro” si pronunciano /kw/ allo stesso titolo di “cuore” e “scuola”, e se si scrivono diversi è solo perché i primi due avevano Q in latino (quando e quadrus), mentre avevano C i due restanti (cor e schola). 

La grafia italiana insomma ha differenziato in base all’etimologia, senza considerare che il latino scriveva diversamente a causa della diversa pronuncia, mentre in italiano /’kwɔre, s’kwɔla/ si pronunciano proprio come /’kwando, ‘kwadro/.

Si sbaglia anche in età adulta

Oggi che possiamo sapere come scrivono gli altri grazie alla posta elettronica e alle reti sociali, è facile constatare che, in età adulta, gli italiani non sbagliano la grafia di “cuore, scuola”. 

In compenso, però, si vedono tanti altri errori dovuti a una scrittura “a orecchio”: “sono quì, vieni quà, non lo sà, un’uomo, le ciliege”. Si badi che questi esempi non sono interferenze degli accenti regionali, bensì un portato dell’arbitrarietà delle regole ortografiche.

Troncamento ed elisione

Si ritiene in genere che “qual’è” sia errore indicante grave ignoranza: davanti a vocale si scrive “un amico” per troncamento di “uno” e “un’amica” per elisione di “una”, poiché davanti a consonante abbiamo “un gatto” ma “una gatta”. Siccome si dice “un certo qual sospetto” e “una certa qual tristezza”, allora si deve scrivere “qual è”, perché “qual” è troncamento di “quale”. Ancora, sarebbe errore scrivere “sé stesso” perché non c’è rischio di confusione, mentre sarebbe lecito scrivere “sé stessi” perché potrebbe esser confuso con “se (tu) stessi”. 

Simili bizantinismi, che siamo costretti a seguire per non passare da ignoranti (ma io rifiuto il secondo precetto e scrivo “sé” sempre con l’accento), occupano un tempo enorme a scuola, malgrado il luogo comune secondo cui “l’italiano è la lingua più facile del mondo perché si legge come si scrive”.

Lingua facile e lingua difficile

Poiché il nostro uso primario della lingua è quello parlato, non quello scritto, sarebbe più corretto dire che “l’italiano si scrive come si pronuncia”. Anche così, però, la cosa non sembra troppo vera, come abbiamo visto nel caso di “cuore” e “quadro”. 

La facilità poi non viene dalla sola scrittura: il turco è passato dall’alfabeto arabo a quello latino proprio per rendere la sua grafia più aderente alla fonetica, ma resta una lingua dalla grammatica molto complessa, e con un lessico sostanzialmente privo di appigli per noi europei: per tutti questi motivi, malgrado la sacrosanta semplificazione ortografica, resta una lingua difficile (sempre per gli europei, ovviamente; per i popoli di lingua turca è un altro discorso).

Viceversa, gli italiani percepiscono l’inglese come una lingua semplice a causa della sua povertà di forme verbali, ma che ne trovino facile la fonetica parrebbe assunto un po’ temerario: ingl. d’Inghilterra /’hɒbɪ/ vs ingl. d’Italia /’ɔbbi/ “hobby”. 

Certo, per gli italiani è abbastanza facile lo spagnolo, lingua direttamente imparentata con la nostra e dal lessico spesso trasparente. Non sono però tutte rose e fiori, a causa di alcune complicazioni grammaticali e di un gran numero di falsi amici anche spettacolari; inoltre, una lingua semplice per noi può risultare un calvario per chi di idioma romanzo non sia, mettiamo un giapponese o uno statunitense.

La relatività di facile e difficile

La facilità della lingua è insomma un concetto in gran parte relativo e, cosa curiosa, non è interculturale: in Brasile sono tutti convinti che il portoghese sia difficilissimo, e si meravigliano che uno straniero lo voglia imparare nonostante l’arduo lavoro che una simile impresa certamente richiederà. 

Ora, a livello grammaticale e lessicale non è che il portoghese sia tanto più difficile dello spagnolo, ma certamente lo è a livello fonetico. 

Questo a sua volta ha causato una serie di complicazioni ortografiche che hanno fatto soffrire i piccoli brasiliani quando sedevano dietro i banchi di scuola: la loro idea che il portoghese sia così impervio è frutto cioè dell’identificazione della lingua con il solo livello scritto (del resto, quando si cimentano con la lingua parlata, la loro scioltezza è tale che sarebbe bello interromperli proprio per chiedere con finta innocenza: “ma come fai a parlare tanto velocemente un sì astruso linguaggio?”).

E il francese e l’inglese? Lo vediamo nella seconda parte domenica prossima.

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Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea. Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).

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