Gli stress test sono divenuti popolari dopo lo scoppio della crisi di Lehman Brothers. La logica è semplice. Siccome si riconosce che il rispetto dei parametri di vigilanza potrebbe non bastare a evitare il dissesto di una banca, si sottopongono agli stress test le banche più grandi, il cui fallimento avrebbe effetti di sistema. Cioè, si valuta se la banca avrebbe abbastanza capitale per resistere al verificarsi di uno scenario avverso, ad esempio la caduta del Pil.
L’idea è che se l’autorità di vigilanza comunica che la banca ha superato il test, i mercati ne saranno rassicurati e, così, si ridurranno l’incertezza e la volatilità dei corsi azionari della banca.
Purtroppo, questo nobile intento cozza con i fatti. La data degli stress test è diventata il punto focale per la speculazione: scommettendo, prima, che il test vada male per una banca, se ne provoca il crollo della capitalizzazione di mercato e si rende così più probabile che, in effetti, quella banca non passi il test.
Insomma, anziché fare chiarezza e promuovere il recupero della fiducia del pubblico nelle banche, gli stress test rischiano di contribuire ad amplificare incertezza, volatilità e, addirittura, a pavimentare la strada a profezie che, magari infondate, divengono autorealizzantisi. Vi è poi la questione del trattamento asimmetrico tra rischi di credito e rischi finanziari.
È indubbiamente più facile misurare il nesso tra rischi di credito e Pil che non quello tra rischi finanziari e Pil. Ciò può portare i test a stimare correttamente i rischi di credito ma sottovalutare quelli finanziari. E questa è una brutta notizia per le banche italiane che, come noto, sono in Europa quelle che fanno più credito e meno finanza. Alla fine, c’è veramente da chiedersi se l’ansia da stress test sia utile a qualcuno, a parte gli speculatori.