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In Borsa alleggerirsi gradualmente prima del picco è saggio: pro e contro

Da “IL ROSSO E IL NERO” di Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos – Dopo un lungo periodo di rialzi in Borsa l’ideale è vendere al top ma è sempre difficile azzeccare il timing giusto – Oggi non è escluso che Trump riesca a fare la riforma fiscale e a dare nuovo slancio alla Borsa ma il top prima o poi arriverà comunque e cominciare prima ad alleggerirsi un po’ è “prova di saggezza”

In Borsa alleggerirsi gradualmente prima del picco è saggio: pro e contro

Quando vedo il cielo di un blu intenso a perdita d’occhio e nessuna nuvola all’orizzonte, quello è il momento in cui corro a vendere tutto. John Templeton (1912-2008) fu sempre un contrarian praticante e con la frase che abbiamo citato sintetizzò l’atteggiamento più controistintivo che esista per chi investe. E infatti, per quanto comunque difficile, è più facile, se si è molto liquidi, comprare a prezzi stracciati quando c’è tempesta che vendere a prezzi elevati quando tutto sembra andare perfettamente, tutti vantano performance da sogno e il vicino di casa racconta in ascensore che sta guadagnando ogni settimana in borsa più di quello che guadagna in un anno lavorando e che sta quindi pensando di licenziarsi per darsi al trading.

E poiché i rialzi durano molti più anni dei ribassi (che sono però spesso micidiali) i contrarian che comprano basso troppo presto hanno da aspettare meno, per avere ragione, dei contrarian che, vendendo alto in anticipo, rischiano di passare anni a rodersi il fegato, diventare malmostosi e, se gestori professionali, a vedere i clienti andarsene uno dopo l’altro perché dalle altre parti fanno meglio.

Templeton non fu mai rancoroso e malmostoso, fu anzi sempre fiducioso e ottimista sul mondo, sorretto da una grande fede (fu un attivo presbiteriano, ma la sua apertura mentale e grande curiosità lo rendevano più simile a un universalista unitariano) e, diciamolo, anche dal fatto di avere spesso avuto un timing quasi perfetto nelle sue scelte d’investimento, come quando comprò tutto il possibile negli anni Trenta.

Consapevole di questa asimmetria tra bottom e top, Peter Oppenheimer di Goldman Sachs è andato a studiarsi i cicli degli ultimo secolo ed è arrivato alla conclusione che vendere tre mesi dopo il picco di mercato non fa differenza rispetto al vendere tre mesi prima del picco. Negli ultimi tre mesi di rialzo, infatti, il mercato sale in media del 7 per cento e questa è la stessa percentuale che perde nei tre mesi dopo il top. L’importante, quindi, non è avere un timing perfetto sul top, ma vendere prima di perdere quell’ulteriore 20-25 per cento che il bear market si porta via mediamente una volta diventato strutturale.

Di fronte a questi dati viene da concludere che, una volta dentro il mercato, è meglio aspettare il picco e vendere un po’ sotto qualche tempo dopo piuttosto che vendere troppo presto solo perché si comincia a sentire aria di sopravvalutazione. Pensiamo ad esempio a quanti (tra cui grandi firme del mondo hedge) hanno alleggerito radicalmente nel 2016 con l’SP 500 a 2000 perché era già caro allora, salvo contemplarlo oggi a 2500. Mettiamo anche che il top sia proprio oggi e che fra tre mesi il mercato sia sceso del 7
percento. Venderemmo allora a 2325, che sarebbe comunque molto meglio di quel 2000 a cui hanno venduto in molti prima delle elezioni americane di novembre.

Facile, non è vero? Ci sono però due problemi e non sono piccoli.

Il primo problema è che non tutti i ribassi partono da un picco arrotondato. Alcuni, come quello del 1987, assumono la forma del crash, cadono cioè in verticale. Questo accade tipicamente dopo un periodo di bassa volatilità durante il quale si accumulano posizioni corte di Vix mentre si diffondono tecniche d’investimento basate sul principio dello stop loss. Lo stop loss prende forme e nomi diversi da un ciclo all’altro (portfolio insurance nel 1987, Value at Risk nel 2008, Risk Parity oggi) ma resta sempre
l’elemento comune della vendita automatica, oggi gestita dalle macchine, nel momento in cui la perdita raggiunge un certo livello predeterminato. A quel punto il ribasso chiama altro ribasso in una spirale che può essere devastante perché collassata in un tempo che a volte è straordinariamente breve.

In altre parole, mentre il bull market, anche nelle fasi più esuberanti, mantiene sempre un certo ordine e lascia il tempo per fare le proprie scelte prima del rien ne va plus, il bear market, come un terremoto, può, in certi momenti, non lasciare letteralmente il tempo per scappare. Vi svegliate la mattina e vedete meno sette, il tempo di prendere il telefono e passare l’ordine ed è già a meno otto, passate l’ordine a meno nove ma il mercato è già a meno dieci e l’ordine non viene eseguito. A quel punto vendete al meglio a meno undici, obbligando altri, che avevano lo stop a quel livello, a vendere a loro volta a meno dodici, e così via. Tutti rischi operativi che, nelle fasi di rialzo, si presentano in forma molto più attenuata.

Il secondo problema è che il picco di un ciclo di mercato lo veniamo a conoscere solo a posteriori. Una discesa del 7 per cento dai massimi può essere l’ultimo avviso per uscire ed evitare il grande bear market successivo ma può anche essere una semplice correzione, come quella del gennaio-febbraio 2016 o come quella che ha subito il Dax quest’anno dopo (dopo!) l’elezione di Macron.

Bisogna allora usare la testa, e non vendere per forza. Ma la testa può sbagliare ed ecco allora Oppenheimer proporre un modello di segnali (disoccupazione, inflazione, curva dei rendimenti, ISM, valutazione) che ci aiuti nella decisione. Un modello ben costruito, il suo, con il solo difetto di indicarci, in questo momento, allarme rosso. Un allarme che il suo stesso proponente decide, viste le condizioni monetarie ancora espansive, di spegnere e non seguire con un’altra considerazione condivisibile, quella per cui probabilmente ci eviteremo un bear market sanguinoso, anche se in cambio dovremo accettare rendimenti bassissimi per molti anni.

Tutto giusto, con in più la possibilità che i mercati, come già stanno cominciando timidamente a fare, riprendano in considerazione l’ipotesi che una riforma fiscale in America si realizzi alla fine per davvero. L’apertura di Trump ai democratici (finora ricambiata) mette una pressione enorme sui repubblicani affinché si decidano a sbrigarsi e, allo stesso tempo, coinvolge i senatori democratici moderati dell’Ovest che dovranno presentarsi agli elettori fra un anno. Se alla riforma fiscale, sia pure annacquata, si affiancherà una Fed non restrittiva nel 2018, un nuovo ciclo di rialzo sulla borsa americana non è da escludere e sarebbe un peccato perderlo.

Per goderne, tuttavia, non sarà necessario essere investiti al 100 per cento. Il top, prima o poi, arriverà comunque e alleggerire gradualmente prima, pur senza rinunciare del tutto alla parte finale del rialzo, sarà solo prova di saggezza.

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