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Borsa, il Trump rally non è finito ma i rialzi saranno selettivi

Da “IL ROSSO E IL NERO” di ALESSANDRO FUGNOLI, strategist di Kairos – Guardare agli effetti del trumpismo sui mercati con le lenti dell’ideologia non aiuta – Il promesso forte sostegno alla domanda e all’offerta può rafforzare la crescita ma azioni, bond, dollaro e materie prime non potranno crescere tutte insieme e oggi le Borse sono da preferire alle obbligazioni

Borsa, il Trump rally non è finito ma i rialzi saranno selettivi

Ogni rialzo ha i suoi gufi e il Trump rally, girando intorno a una figura che suscita forti passioni, ne ha ancora di più. Oltre ai permabear e ai bollofobi abituali, oltre a tutti quelli che continuano ad aspettare fiduciosi l’implosione dell’Europa e il crollo della Cina abbiamo questa volta tutti quelli che erano arrivati troppo leggeri alle elezioni, quelli che hanno venduto sulla vittoria di Trump e non hanno più comprato e, soprattutto, tutti quelli (e sono tanti anche tra gestori ed economisti) in cui la passione politica fa premio sulla capacità di analisi e sulla voglia di fare soldi o previsioni corrette.

Poiché la passione politica esiste, eccome, anche tra i laudatores del trumpismo, lo sforzo di essere distaccati va raddoppiato. Essere ideologici, nei mercati, non paga mai. Fino a questo momento l’obiezione più interessante al Trump rally l’ha fatta Trump stesso quando, in campagna elettorale, ha parlato più volte (anche su ispirazione di Carl Icahn) degli elevati livelli raggiunti dai mercati azionari e dell’artificiosità e politicità (nel senso di politics, non di policy) dei tassi bassi.

State molto attenti, ha raccomandato più volte agli elettori, e ha anche agito con coerenza, liquidando tra l’estate e l’autunno tutto il suo portafoglio azionario, in una fase in cui, come ha poi rivelato, non pensava che avrebbe vinto le elezioni. La controbiezione al Trump rally l’ha fatta Carl Icahn quando è scappato di corsa dalla Trump Tower la notte della vittoria per correre a comprare un miliardo di quelle azioni che il resto del mondo, terrorizzato, stava buttando via. La contro-controbiezione l’ha fatta di nuovo Carl Icahn, che nei giorni scorsi ha rivelato di avere venduto una buona parte delle azioni che il resto del mondo stava disperatamente strappandosi di mano ed è tornato neutrale, lungo di singole società e corto di indici.

Un altro modo interessante di descrivere i limiti del Trump rally è quello di inquadrare il ciclo politico nel ciclo economico, come fa David Rosenberg. Reagan, Clinton e Obama partirono tutti dopo una recessione e con i mercati ripuliti e sottovalutati. La ripresa economica e i grandi rialzi di borsa che ne seguirono li aiutarono a conseguire il secondo mandato. Trump parte con un ciclo ultramaturo e con una borsa già triplicata. Non sono i presidenti a creare riprese e recessioni ma la Fed e questa Fed, che politicamente non è disposta a fare nessun favore a Trump, si è finalmente messa sulla strada del rialzo dei tassi, che prima di uccidere la ripresa ucciderà il rialzo azionario.

Sono argomentazioni degne di considerazione, ma è innegabile che forti politiche di sostegno alla domanda (detassazione per le famiglie, spese militari e per infrastrutture), se accompagnate a forti politiche di sostegno all’offerta (detassazione per le società, deregulation, politica energetica, rimpatrio delle disponibilità estere delle imprese) possono prolungare e rafforzare la crescita senza per questo creare inflazione, soprattutto se, ai margini del mercato del lavoro, esistono decine di milioni di persone che potrebbero entrarci e tenere bassa l’inflazione salariale.

Il Trump rally, quindi, non è necessariamente finito. Quella che è sicuramente finita è la sua prima fase, quella basata su vaghe aspettative. Questa prima fase è stata modulare. I quattro moduli, azioni, cambi, obbligazioni e materie prime hanno scontato Trump ognuno in isolamento dagli altri. E così le azioni hanno scontato la crescita degli utili da detassazione e prolungamento del ciclo. I cambi hanno puntato sul dollaro per effetto del maggiore differenziale dei tassi e della crescita. I bond hanno invece scontato il nuovo scenario di rialzi accelerati dei tassi, mentre le materie prime hanno festeggiato la maggiore domanda globale prodotta dalle politiche americane. Tutto giusto, ma fino a un certo punto, perché il rialzo di dollaro e tassi non può conciliarsi, oltre un certo livello, con il rialzo di borsa. Eccoci allora entrati in una fase di riconciliazione tra i diversi moduli.

Il trumpismo (e qui parliamo di trumpismo ex ante, quello immaginato) ha un valore, ma si tratta per forza di un valore finito, non infinito. Se vale 100, questo 100 va distribuito tra le varie classi di asset. Se ipotizziamo che la borsa mantenga questi livelli allora il dollaro dovrà tornare un po’ indietro e qualcosa andrà restituito ai bond, che si sono sacrificati per tutti. Questa fase di riconciliazione si sta accompagnando a una classica redistribuzione, quella per cui Icahn vende e qualche istituzionale ancora sottopesato compra. Fasi di questo tipo sono di solito laterali per la variabile dominante (in questo caso la borsa) e di ritracciamento per le altre (bond e dollaro).

Nel frattempo, sempre più vicino, avanza il trumpismo reale, che non sarà necessariamente quello immaginato se non altro perché sarà infinitamentepiù articolato e complesso. Quella che si preannuncia è niente di meno che una rivisitazione generale di tutto il sistema fiscale e di tutto il sistema delle istituzioni multilaterali uscite dalla seconda guerra mondiale. Tutto verrà messo in discussione, ci saranno vincitori e perdenti. La sola istituzione di una border tax (che peraltro non farà che allineare l’America a quello che fanno già tutti mascherandolo da rimborso o esenzione dell’Iva sulle esportazioni) avrà effetti difficili da prevedere non solo sui diversi settori americani, ma anche sui loro fornitori, compratori o concorrenti del resto del mondo.

Le ambizioni della nuova amministrazione e del nuovo Congresso sono enormi, ma è enorme anche la complessità dei problemi e degli interessi toccati. Per quanto si intenda partire con la massima energia è probabile che molte riforme si riveleranno più lunghe e faticose di quanto si possa pensare oggi mentre i loro effetti, più che nel 2017, saranno visibili dall’anno prossimo in avanti. Il percorso per i mercati, dopo la fase attuale di riconciliazione e distribuzione, sarà probabilmente di nuovo in rialzo per le borse non appena si vedranno i primi decreti (già dal 23 gennaio) e i primi abbozzi concreti delle riforme. Da lì in avanti vedremo i mercati ruotare e frantumarsi. Non sarà più ciclici verso difensivi ma molto più complicato. In pratica ogni società quotata farà storia a sé in funzione, ad esempio, della sua aliquota fiscale di partenza, della sua esposizione verso l’estero, dei suoi piani di rimpatrio dei capitali e di reinvestimento. Ci sarà da studiare giorno e notte tanto quanto si è potuto sonnecchiare in questi ultimi anni sotto il pilota automatico delle banche centrali.

Alla fine, se il trumpismo non crollerà schiacciato dal peso delle sue ambizioni, l’America sarà più forte e il ciclo economico potrà vivere più intensamente i suoi due-tre anni di vita residua (la prognosi che prevaleva prima delle elezioni) e forse godere di tempi supplementari. Se le cose si riveleranno più complicate di come appaiono oggi il ciclo di rialzo dei tassi sarà più lento e il rafforzamento del dollaro più modesto.

È possibile che la nuova Fed in via di trumpificazione preferisca un contro-Qe (la vendita dei titoli in portafoglio e lo sgonfiamento del bilancio) a un aumento dei tassi, ma la trumpificazione sarà lenta e solo nel 2018 sarà completata. Le borse europee, che stanno traendo molto vantaggio dall’euro debole, devono stare attente ad augurarsi un dollaro sempre più forte. Bucare la parità significherebbe mettere in difficoltà l’America, da cui tutto parte e in cui tutto finisce, e imbarcare inflazione in un momento in cui questa ha ripreso a dare segni di vita. Questo potrebbe indurre la Germania a chiedere la fine accelerata del Qe, mettendo in difficoltà la periferia indebitata. In questo contesto così fluido l’azionario resta da preferire ai bond, ma senza esagerare.

La cosa migliore sarà mantenere un livello di liquidità piuttosto elevato in modo da approfittare di volatilità e rotazioni. Ripetiamo, non ci sono all’orizzonte né crash né recessioni, ma ci sono in compenso una lotta politica incandescente in America, nuove tensioni internazionali e un’Europa in cerca di identità, il tutto con valutazioni tendenzialmente alte. Godiamoci lo spettacolo mantenendo una certa prudenza.

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